Opere edite del principe di Canosa di Gianandrea de Antonellis
Opere edite del Principe di Canosa
Legenda:
- Il numero tra parentesi quadre indica la quantità di pagine nella nuova impaginazione 14×21 e 17×24
- L’anno in rosso indica il possesso del pdf
- L’evidenziazione in giallo indica un’opera ancora da reperire
Opere politiche
Monografie
- 1795 [63-43] L’utilità della Monarchia nello Stato Civile. Due edizioni:
- Dissertazione di Antonio Capece Minutolo de’ Principi di Canosa fatta in occasione d’un’accademia, ed all’Eccellent., e Reverend. Monsignore D. Errico Capece Minutolo vescovo di Mileto dedicata, Napoli 1795.
- Orazione contro i novatori del Secolo di Antonio Capece Minutolo. Napoli, Rambraja, 1796. Seconda edizione ampliata.
- 1796 Epistola, ovvero, Riflessioni critiche sull’opera dell’Avv. Fiscale Sig. D. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei Baroni in tempo di guerra di Antonio Capece Minutolo dei Principi di Canosa 1796
- 1799! Memoria dilucidativa di varj articoli da aversi in considerazione nella abolizione da farsi dei feudi e della feudalità / del cittadino Antonio Capece Minutolo, p. 30 [20]
- 1803 [44-28] Discorso sulla decadenza della Nobiltà
- 1813 I napoletani compromessi hanno un dritto perfetto ad essere sussidiati nel Regno di Sicilia. Memoria di Antonio Capece Minutolo dei Principi di Canosa da presentarsi al generale Parlamento da adunarsi nel 1813. Palermo : dalla Tipografia Reale di Guerra, 1813, p. 35; 4° [54]
- 1820 [251-150] I piffari di montagna; quattro edizioni conosciute:
- I pifferi di montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i carbonari. Epistola critica diretta all’estensore del foglio letterario di Londra. Dublino, maggio 1820, p. 118, in -8°. Prima edizione. Il luogo di pubblicazione è falso. Il vero luogo di stampa è Lucca, maggio 1820. Che la prima edizione dei Pifferi di Montagna sia stata stampata a Lucca dal Bertini, risulta dalle lettere del Canosa al Lucchesini del 31 ottobre e del 29 novembre 1820 (B.G.L. Lettere di Canosa a C. Lucchesini, ms. n. 1362, cfr. W. Maruri, Il principe di Canosa, p. 141, n. 1).
- I pifferi di montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i carbonari. Epistola critica diretta all’estensore del foglio letterario di Londra. Edizione corretta ed accresciuta. Dublino, ottobre 1821, p. 216, in -8°. Seconda edizione con note e aggiunte. Il luogo di pubblicazione è falso. Il vero luogo di stampa è Lucca.
- I pifferi di montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i carbonari. Epistola critica diretta all’estensore del foglio letterario di Londra. Faenza, per Montanari e Marabini, 1822, p. 260, in -8°. Terza edizione (riprende il testo della prima edizione).
- I pifferi di montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i carbonari. Epistola critica diretta all’estensore del foglio letterario di Londra. Parigi, s.n., 1832, p. 236, in -8°. Quarta edizione (riprende il testo della seconda edizione più alcune aggiunte di testi già pubblicati sulla «Voce della Verità»..
- 1825 [220-143] Sull’utilità della religione cristiana, cattolica, romana per la tranquillità e pace dei popoli, e per la sicurezza dei troni. Discorso accademico parenetico paradigmatico arricchito di copiose annotazioni e da indici, etc. Opera di Antonio Capece Minutolo. Napoli, Giovanni Battista Seguin, 1825.
- [1828] [43-28] Della politica omiopatica ragionamento di A.C.M
- 1831 [98-64] In confutazione degli errori storici e politici di Luigi Angeloni esposti contro Sua Maestà l’Arciduchessa Maria Carolina D’Austria defunta Regina di Napoli. Epistola di un amico della verità ad uno storico italiano rispettabilissimo. Seconda edizione con aggiunte e correzioni dell’Autore. 1831
- 1831 [38-23] I miracoli della paura. Ragionamento di Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa dedicato ai suoi amici, Modena 1831
- 1831 [43-28] Sulla proporzione delle pene secondo la diversità dei Epistola di Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa all’egregio Professore Mario Antonio Parenti, Modena, Tip. Camerale, 1831
- 1832 [95-61] I piccoli piffari Ossia Risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia dà l’antico autore de’ Piffari di Montagna [Antonio Capece Minutolo di Canosa] in difesa del suo calunniato cliente principe di Canosa.
- 1832 [84-55] Vita politica del cavaliere D. Luigi De’ Medici… [opera di un anonimo giureconsulto napoletano legittimista, pubblicata a cura del Principe di Canosa, del quale sono le note di cui è corredata…]. Parigi 1832, XII+78
- 1834 [158-104] Epistola, ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del Reame di Napoli del Generale Pietro Colletta Opera di Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa. 1834 (testo ed. Berisio)
- 1834 ca. [82-56] Raccolta di lettere ad un amico, [S.l. : s.n., dopo il 1832!, 84 p.; 21 cm[1].
- 1835 [134-90] Epistola contro Tommaseo, da La Gazzetta «La Voce della Verità» condannata a morte ignominiosa…, Filadelfia 1835, p. 35-172.
- 1835 [32-21] Il secolo XIX, manoscritto
- 1837 [96-66] Lettere ad un ministro di Stato, manoscritto
- Perché il Sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei re (inedita, tre grossi tomi in folio, Biblioteca estense; Biblioteca di Giovine)
- Apocalisse politica ossia Rivelazioni sull’intrigo politico della rivoluzione di Napoli del 1820 e sulla cabala che mise nel nulla le risoluzioni dei congressi di Troppau e di Lubiana (Reichs Archiv Wien – disperso),
Articoli
Articoli apparsi su «L’Amico d’Italia».
- L’Autorità, in «L’Amico d’Italia. Miscellanea morale di lettere, scienze ed arti», anno IV (1825), vol. VII, p. 111-120 [anche in Riflessioni di S. E. il Signor Principe di Canosa sull’Autorità, pubblicato come lettera in «Giornale ecclesiastico di Roma», vol. III, 1825 (agosto), p. 172-181, in una diatriba su Félicité de La Mennais, De la Religion dans son rapport avec l’ordre politique et civil (Paris 1825)]
- Estratto di un’operetta sulle relazioni tra la religione e lo stato politico, e dell’utilità che questo ne conseguisce, in «L’Amico d’Italia», anno IV (1825), vol. VII, p. 1-23. (che sia tratta dal secondo volume – previsto e non pubblicato – di Sull’utilità della religione cristiana?)
- Cenno sull’immoralità venuta in seguito delle rivoluzioni e tristi conseguenze che possono cagionare a taluni popoli, in «L’Amico d’Italia», anno IV (1825), vol. VII, p. 285-305; vol. VIII, p. 65-85; vol. VIII, p. 144-164.
- Sulla religione cristiana cattolica che più d’ogni altra è adatta a ispirare negli uomini un vero coraggio, in «L’Amico d’Italia», V (1826), vol. IX, p. 153-195.
Articoli apparsi su «L’Amico della Gioventù»
- Polemica contro i giornali rivoluzionar, in «L’Amico della Gioventù», tomo II, Modena, Nella Tipografia Camerale, 1832, p. 178-191. L’articolo fu successivamente diffuso attraverso un pamphlet.
- Discorso sull’albero della libertà francese. Tradotto dal tedesco da L. P., in «L’Amico della Gioventù». Tomo IV, Modena, Nella tipografia Camerale, n. XXIII, 1 ottobre 1833, p. 129- 137 [Introduzione]; p. 138-160 [testo]. È la traduzione di un opuscolo contro-rivoluzionario tedesco del 1792. L’introduzione le note sono del principe di Canosa e vengono alla luce qui per la prima volta. Il saggio fu successivamente diffuso attraverso un pamphlet.
- Sulla giustizia e sulla proprietà; preceduto da una lettera Al sig. Francesco Galvani, direttore dell’Amico della Gioventù, in «L’Amico della Gioventù», Modena, Nella Tipografia Camerale, 1833, tomo III, p. 130-136 (n. XVI, 15 giugno), p. 153-162 (n. XVII, 1° luglio); p. 182-193(n. XVIII, 15 luglio); tomo IV, p. 20-31 (n. XIX, s.d., ma 1° agosto); p. 51-64 (XX, 15 agosto); p. 65-81 (XXI, 1° settembre). Il saggio fu successivamente diffuso attraverso un pamphlet. [Sulla giustizia e sulla proprietà. Dialogo etico-politico di Antonio Principe di Canosa, Modena, nella Tipografia Camerale, 1833.]
Articoli apparsi su «La Pragmatologia Cattolica».
- L’Influenza che i politici ebbero nella rivoluzione, Lucca, 1829-1835?
Biblioteca Statale di Lucca, segnature: G.L.198 oppure SMN.83.1-36
Articoli apparsi su «La Voce della Verità»
- Patriotta: art. per il Dizionario liberale, in «La Voce della Verità», Modena, vol. I, n. 13, 16 agosto 1831
- Sulla parola Patria. Art. per il Dizionario liberale, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 16, Supplemento, Modena, 25 agosto 1831.
- Articolo, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 18, Supplemento, Modena, 2 settembre 1831.
- Dizionario liberale, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 21, Modena, 13 settembre 1831.
- Dizionario liberale (seguito), in «La Voce della Verità», vol. I, n. 22, supplemento, Modena, 16 settembre 1831.
- Sentimento della Francia Rivoluzionaria, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 29, supplemento, Modena, 11 ottobre 1831.
- Bonaparte (Sonetto), in «La Voce della Verità», vol. I, n. 31, Modena, 18 ottobre 1831.
- Risposta alle querele sulle pretese acrimonie usate in taluni articoli polemici della “Voce della Verità”, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 34, Modena, 25 ottobre 1831.
- Lettera sopra un articolo del “Costituzionale”, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 81, Modena, 11 febbraio 1832.
- Lettere sopra un articolo del “Costituzionale”, seguito, in «La Voce della Verità», vol. I, n. 84, Modena, 19 febbraio 1832.
- Lettera in confutazione del primo fascicolo della “Giovine Italia” , in «La Voce della Verità», n. 106, supplemento, Modena, 10 aprile 1832. Il saggio fu successivamente ripubblicato in appendice alla sesta edizione de I pifferi di montagna, Parigi, 1832.
- Lettera ad un signor duca gentilissimo, in «La Voce della Verità», n. 112, supplemento, Modena, 24 aprile 1832. Il saggio fu successivamente ripubblicato in appendice alla sesta edizione de I pifferi di montagna, Parigi, 1832.
- Risposta del Principe di Canosa al “Costituzionale” francese sopra un articolo contro LL. AA. RR. L’Arciduca d’Austria Francesco IV duca di Modena e la principessa Reale delle Due Sicilie Maria Carolina, duchessa di Berry, in «La Voce della Verità», n. 126, Modena, 26 maggio 1832. Il saggio fu successivamente ripubblicato in appendice alla sesta edizione de I pifferi di montagna, Parigi, 1832.
- Di alcuni vaticini di già noti ai fedeli. La Voce della Verità, n. 145, appendice, Modena, 10 luglio 1832 n. 146, supplemento
- Sulla pretesa ferocia dei Borboni, in «La Voce della Verità», n. 180, supplemento, Modena, 29 settembre 1832
- Le rivoluzioni nel senso di quelle avvenute dall’epoca della riforma, non possono produrre felici risultasti per i popoli, in «La Voce della Verità», n. 190, supplemento, Modena, 23 maggio 1832 [189, 20 ottobre 1832]
- Lettera ad un amico carissimo (sulla duchessa di Berry) , in «La Voce della Verità», n. 252, Modena, 16 marzo 1833.
- Lettera ad un “signor mio riverito” (sull’articolo del “Costituzionale” del 19 marzo n. 28) , in «La Voce della Verità», n. 259, Modena, 2 aprile 1833
- Lettera ad un amico pregiatissimo sui numeri 180 del “Corriere” e 181-182 del “Costituzionale” relativi al re di Sardegna, in «La Voce della Verità», n. 306, supplemento, Modena, 20 luglio 1833
- Lettera ad un “carissimo mio”, in «La Voce della Verità», n. 307, Modena, 23 luglio 1833
- Lettera ad un “amico mio” , in «La Voce della Verità», n. 315, Modena, 10 agosto 1833
- Lettera ad un “pregiatissimo amico” in materia politica, e della legittimità, in «La Voce della Verità», n. 320, supplemento, Modena, 30 luglio 1833 (320: 22 agosto) è lo stesso del seguente:
- Brano di un’operetta del principe di Canosa che fra poco vedrà la luce (riguarda i militi modenesi) , in «La Voce della Verità», n. 334, Modena, 24 settembre 1833
- Lettera al sig. Conte: parere sulla “relazione del viaggio di Pio VII a Genova” , in «La Voce della Verità», n. 387, Modena, 25 gennaio 1834
- Lettera al sig. Conte: parere sulla “relazione del viaggio di Pio VII a Genova” , in «La Voce della Verità», n. 388, Modena, 28 gennaio 1834
- Lettera ad un “amico mio” sull’impresa della “Giovine Italia” in Savoia, in «La Voce della Verità», n. 399, Modena, XX febbraio 1834 n. 397, 18 febbraio 1834
- Lettera al Direttore della “Voce della Verità”, Argumentum Recti Est Displicuisse Malis, in «La Voce della Verità», n. 403, Modena, 4 marzo 1834
Articoli apparsi su «La Voce della Ragione».
- Date obolum Belisario, poesia, in «La Voce della Ragione», Fasc. 71, 15 marzo 1835, p. 311 (è in “poesie”)
Articoli vari
- 1820 [21] Analisi sopra un articolo della Minerva Napolitana epistola dell’Autore dei Piffari di Montagna a un suo amico. Parma 30. 11. 1820 [pubblicato in calce alla seconda edizione dei Piffari di montagna]
- 1821[3] Risposta del n.° CXLIV del giornale napoletano intitolato «L’amico della costituzione» de’ 2 gennajo del corrente anno, 8 p. ; 8° [pubblicato in calce alla seconda edizione dei Piffari di montagna]
- 1823 [26] Piano dei liberali tradotto dal francese… Genova 1823.
- 1831? [10] Ritratto [di Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa, scritto da lui stesso]
- 1832 [46] Un Dottore in Filosofia e un Uomo di Stato. Dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice]. Parigi, Agosto 1832.
- 1833 [24] L’Enciclica del 15 agosto 1832 e il giansenismo del XIX secolo
- 1833 [35] Sulla corruzione del secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee. Lettera ad un Amico (di Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa). Italia, 1833.
- 1833 [59] Sulla giustizia e sulla proprietà. Dialogo etico-politico, Modena: Tip. Camerale, 1833
- 1834 [18] All’amico lettore. Caro Amarante…[2] (p. 36)
- 1834 [4] Lettera della Gazzetta a Ferdinando II, manoscritto
- 1834 [10] Lettera al signor conte N. N. [S.l. (Modena?), s.n., 1834?] 20 p. ; 13 cm. Il nome dell’A. si trova in calce al documento. Biblioteca di storia moderna e contemporanea – Roma[3]
- 1834 [5] Il Balì Sanminiatelli deve al suo onore, alle sue caratteristiche, ed alla parola data al pubblico la seguente protesta … / [S.l. : s.n. , 1834?] In testa all’intit.: Modena 24 agosto 1834. Il nome dell’A. in calce.
- 1834
Istanze, memorie e lettere riguardanti le sue vicende. 1834 https://www.principedicanosa.it
Opere giuridiche e varie
- 1799 (p. 60) Autodifesa per l’accusa di insubordinazione al Vicario Pignatelli (in Il Magistrato di Città)
- 1803 (p. 56) Epistola al maresciallo D. Raimondo Capece Minutolo de’ principi di Canosa sull’uomo incombustibile comparso in Parigi in quest’anno 1803
- 1804 ca. Della naturalità, cittadinanza ed incolato, breve appunto (Manoscritto, Archivio Borbone, Carte Canosa 722 – I.
- In difesa del III Aiutante dei Reali Sanniti Domenico Artese inquisito di delitto di falsità da trattare in grado di appellazione nel supremo Consiglio di Guerra. Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa (difensore). https://www.principedicanosa.it
Opere teatrali, dialogiche e poetiche
- 182? [94] L’isola dei Ladroni o sia La Costituzione selvaggia
- 1831 [5] Voce Patria per il “Dizionario Liberale” [già considerato come articolo de «La Voce della Verità»]
- 1833 [20] Il Ministro di Polizia ed il Filosofo (fa parte della polemica contro Riccini)
- 1833 [59] Sulla giustizia e sulla proprietà. Dialogo tra un costituzionale e un legittimista
- 1831 [16] Sulla politica amalgamatrice
- [61] Varie opere poetiche
Opere religiose e morali
- 1794 (p. 415) TINES EK TWN LOUKIANOU SAMOSATEOS aliqui ex Luciani Samosatensis operibus Dialogi morales ab Antonio Capycio Minutolo ex principibus Canusii Latine, & Italice redditi, & excellentissimae dominae Teresiae Revertera dicati, Neapoli : typis Onuphrii Zambraja, 1794[4] [Biblioteca Croce: NICOLINI SECONDO 1859]
- 1795 (p. 340) La Trinità. Orazione dogmatico-filologica di Antonio Capece Minutolo dei Principi di Canosa, patrizio napoletano fra i Sinceri dell’Arcadia Reale Isocrate Larissio… Napoli, Onofrio Zambraja 1795
- 1802 (p. 34) La Natività del Divino Nostro Redentore dimostrata con le autorità degli etnici filosofi di Antonio Capece Minutolo dei principi di Canosa [Napoli, 1802?] BNN VILL. Misc. 162.6
- 1802 (p. 110) La passione, e morte del divino nostro redentore predetta dai profeti confermata dai prodigj e dalle testimonianze degli eterodossi scrittori. Opera di Antonio Capece Minutolo dei principi di Canosa dedicata alla sacra reale maestà di Carlo Emmanuele re della Sardegna. Napoli : presso Vincenzo Orsino, 1802
- 1804 ca. La cronologia di Mosè non è smentita dalle vantate antichità babilonesi, manoscritto, Archivio Borbone, Carte Canosa 722-I, c. 118-124.
Opere attribuite o spurie
- Poesie d’occasione (in realtà del padre Fabrizio)
- 1791 In morte del duca di Belforte tra gli arcadi Licofonte Trezenio. Del principe di Canosa. Sonetto BNN RACC.VILL. Misc. 222.16 di Fabrizio Capece Minutolo[5]
- 1799? Al glorioso S. Gennaro del principe di Canosa Sonetto BNN RACC.VILL. Misc. 239.33 è del padre? La data è presunta
- 1799 Nell’ottavario del glorioso S. Gennaro di settembre 1799. Del principe di Canosa di Fabrizio Capece Minutolo[6]
- 1801 In morte di S.A.R. la principessa ereditaria Maria Clementina d’Austria del principe di Canosa. Sonetto BNN RACC.VILL. Misc. 172.28 di Fabrizio Capece Minutolo
- 1801 Celebrandosi nell’arcivescovado i funerali per s. a. r. la principessa ereditaria la medesima così dice. Del principe di Canosa sonetto BNN RACC.VILL. Misc. 445.9 di Fabrizio Capece Minutolo
- 1801 Nella traslazione del sangue del glorioso S. Gennaro nel dì due di maggio 1801. Del principe di Canosa BNN RACC.VILL. Misc. 162.6 di Fabrizio Capece Minutolo
- 1789 Sonetto Per la morte di S. M. Cattolica Carlo III. [14 XII 1788] BNN RACC.VILL. Misc. 122.13 è di Fabrizio Capece Minutolo
- 1800 Le ricchezze dell’Italia passate in Francia ossia Prospetto dello spoglio fatto dalla Repubblica francese dopo l’anno 1794. Traduzione dal francese, Italia, 1800, p. 30; 16º (Probabilmente opera del Principe di Canosa [attribuzione errata[7]]: cfr. Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa…, p. 211).
- 1804 Per l’Ill. Barone di Massinara, e Plutino D. Francesco, ed altri suoi fratelli d’Aquino dei Signori di Castiglione, patrizj napoletani nel supremo ecc. Tribunale Conservatore della nobiltà del Regno di Napoli. [Napoli?] p. 3+37 (in realtà di Giuseppe Maria Avati Carbone, il cui nome si trova a p. 37).
- 1832 spurio La monarchia ed i faziosi. Dialoghi due / [Antonio Capece Minutolo], Modena, Tip. Camerale, 1832, p. 40 (incompleto – è un libello contro il PdC)
- 1833 (p. 98) Otto giorni dedicati ai liberali illusi. s. l. 1883. Attribuito dal sito https://www.principedicanosa.it. La Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma lo attribuisce a Monaldo Leopardi[8]; idem Jörn Leonhard, Liberalismus: Zur historischen Semantik eines europäischen Deutungsmusters, Oldenbourg Verlag München 2001, p. 631
- 183… [21] ASNa Archivio Borbone 1114, ff. 127-157 Sulla riconoscenza.
Presso Archivio di Stato – Napoli
Archivio Borbone
-
277 1822 Vigilanza su casa Canosa [cfr. Maturi]
- 278 1821 Uscita di Canosa dalla carica di Ministro
- 657 Ministero di Polizia
- 695 II 1830 giugno-luglio Carte riservate riguardanti Canosa
- 722 1804-1805 Canosa patrocinatore di cause militari
- 723 Carte Canosa
1815 Alter ego a Canosa in affaire Murat
1820 Giuramento alla Costituzione
1818 Eredità
1816 Dimissioni - 734 Carte Canosa – lettera Ferdinando I e Francesco I
- 740 1821 Suppliche diverse al Re e al Canosa
- 742 Corrispondenze diverse
- 742 1825-1838 Corrispondenza Re con Canosa
- 745 1830-1838 Corrispondenza Re con Canosa
- 746 1833-1838 Gioacchino Pedrelli e Canosa
- 747 1833-1838 Corrispondenza diversi con Canosa
- 748 1835-1838 Corrispondenza diversi con Canosa
- 750 1810-1835 Canosa a diversi (copia)
- 820 Corrispondenza novembre 1830-1832
- 828 Opuscolo su un libello del Canosa
- 919 1831-1833 Notizie sul Canosa
- 1102 Epistole a stampa del Canosa [lettera su polemica Riccini]
- 1114 Composizione del Canosa [Sulla riconoscenza cfr. 85]
- 1115 1832 Lettere di Canosa al Duca di Gualtieri
- 1124 1835 Lettere di Canosa
- 1131 1821 Lettere di Canosa a G. B. Fardella
[1] Ulteriore conferma della data e dell’attribuzione proviene da una lettera di Monaldo Leopardi che il 5 febbraio 1834 scrive ad Antonio Capece Minutolo di non poter pubblicare le sue Lettere dalla Romagna «senza pericolo che il mio giornale finisca ipso facto di morte repentina». Cfr. Nada Fantoni, “La Voce della Ragione” di Monaldo Leopardi (1832-1835), Società editrice Fiorentina, Firenze 2004, p. 24.
[2] In Jörn Leonhard, Liberalismus. Zur historischen Semantik eines europäischen Deutungsmusters, R. Oldenbourg Verlag, München 2001, Bibliografia, p. 628 è catalogato come Epistola ad un Carc[er]iere, Roma, 1834.
[3] Discute di un certo articolo diffuso in Romagna in quei giorni, proveniente da un corrispondente della «Voce della Verità», ma che aveva dato nel naso a molti legittimisti perché affermava che nel Medioevo c’era più franchezza e lealtà di oggi.
[4] Traduzione da Luciano di Samosata.
[5] Come le altre poesie seguenti, reca la firma «Principe di Canosa», titolo che al tempo in cui furono scritte spettava al padre Fabrizio (23.6.1738-26.12.1817). La coeva Lettera sull’uomo incombustibile (1803), è infatti firmata «Antonio Capece Minutolo dei Principi di Canosa»
[6] Biblioteca di storia moderna e contemporanea – Roma (MISC. Ris. b.516 /84)
[7] Errore: l’autore è Jacques Mallet du Pan [1749-1800], Le ricchezze dell’Italia passate in Francia ossia Prospetto dello spoglio fatto dalla Repubblica francese fino dall’anno 1794 (Italia, 1800, 30 p. in 8°). Trad. dell’articolo di Jacques Mallet Du Pan dal titolo Relève sommaire des tributs et des vols, arrachés par la République française a l’étranger, depuis 1794, in «Mercure britannique», n. X, 10 janvier 1799. L’articolo era stato già tradotto e stampato a Milano nel 1799 con il tit.: Quadro epilogato delle contribuzioni esatte dalla Repubblica francese presso l’estero dopo il 1794 (cfr. Nicola Matteucci, Jacques Mallet Du Pan, Istituto Italiano per gli Studi Storici. Napoli 1957, p. 402)
[8]http://cataloghistorici.bdi.sbn.it/file_viewer.php?IDIMG=81384&IDCAT=96&IDGRP=960110&LEVEL=&PADRE=&PROV=INT
Una riflessione sul libro di Walter Maturi Il Principe di Canosa
Un nobile intellettuale napoletano dalla personalità indomita: un galantuomo, un cristiano, un uomo di governo carismatico, leale, coerente e fedele ai principi della monarchia, della nobiltà e della religione.
Una riflessione sul libro di Walter Maturi
Il Principe di Canosa
«Frutto di lunghe e accurate ricerche in archivi e in biblioteche», il libro Il Principe di Canosa di Walter Maturi (Felice Le Monnier -Firenze 1944) intende tracciare il profilo di «una personalità assai discussa, che simboleggia gli ideali reazionari dell’epoca della Restaurazione in Italia», attraverso l’esame di un’infinità di lettere, e di una ricca bibliografia del Canosa. Epistola ovvero Riflessioni critiche sulla moderna Storia del Reame di Napoli del generale P. Colletta (Capolago, 1834), Perché il Sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei re (inedita, tre grossi tomi in folio, Biblioteca estense), Apocalisse politica ossia Rivelazioni sull’intrigo politico della rivoluzione di Napoli del 1820 e sulla cabala che mise nel nulla le risoluzioni dei congressi di Troppau e di Lubiana (inedita Reichs Archiv Wien), I Piffari di montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i Carbonari (Dublino, 1820 e 1821 2ª ediz.; Parigi 1832 6ª edizione), sono solo alcuni testi a cui il Maturi ha potuto attingere per la stesura del libro.
La formazione del principe di Canosa
Il principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768 ed è battezzato il 6 marzo dal reverendo padre fra Vincenzo Vitale, assistito dal reverendo coadiutore d. Antonio Palombella, nella Cappella di casa, con il nome di Antonio Luigi Raffaele, figlio di Don Fabrizio Capece Minutolo dei principi di Canosa, e di donna Rosalia de Sangro dei principi di S. Severo. Il principe non apprende la fede religiosa al Collegio nazareno dei gesuiti di Roma, dove studia filosofia, o grazie agli insegnamenti del padre, «il pio e dotto Fabrizio» che lo avvia alla carriera forense, quasi subito abbandonata dal Canosa, ma per personale convincimento. Tuttavia, è limitata da una «contaminatio politica e da una contaminatio cavalleresca».
Tra i suoi maestri figurano ecclesiastici «orientati verso la politica» come il cardinale Stefano Borgia, l’ultimo campione del curialismo nella lotta antiregalista settecentesca e l’abate Nicola Spedalieri, precursore del papismo reazionario ottocentesco.
Vi è poi la contaminatio cavalleresca che, rispetto a quella politica che ha ridotto la considerazione della religione del Canosa ad una mera istituzione utile per mantenere l’ordine nella società, «potenziò quella foga sanguigna, che aveva avuto dalla natura».
Per mantenere la religione nel suo perfetto sistema è, secondo lui, «necessario credere senza restrizioni mentali nel primato papale e, quando la religione fosse mantenuta nel suo perfetto sistema, la società sarebbe stata in calma e in tranquillità, poiché la storia dimostra che dalle eresie religiose si era sempre passato alle eresie politiche e sociali». Obbediente, quindi, all’infallibilità papale, il Canosa non aderirà mai alla massoneria, condannata da Clemente XII nel 1738 e da Benedetto XIV nel 1751.
Il suo “edificio politico”
Nella costruzione del suo edificio politico trae grande ispirazione dallo scrittore francese Montesquieu, autore dell’opera Spirito delle leggi, tradotto in italiano a Napoli (ed. Terres, 1771).
Il pensiero politico del Canosa può essere condensato in quattro massime del Montesquieu che ricorrono in tutte le sue opere dal 1795 al 1835. «Non si può concepire una monarchia sana senza potestà intermedie e tra le potestà intermedie quella della nobiltà entra così intimamente nell’essenza della monarchia, che si può lanciare la formula: dove non v’è monarchia, non v’è nobiltà, dove non v’è nobiltà, non v’è monarchia, ma si ha un despota». Il principio su cui si fonda una monarchia così concepita è l’onore. A queste due massime che, nel sistema d’idee del Canosa hanno un valore positivo, se ne contrappongono altre due, che gli servono invece da armi polemiche. Se le potestà intermedie sono le basi di una monarchia sana, chi con le sue riforme intacca le potestà intermedie viene a minare la stessa monarchia.
Quindi, se l’onore è il sentimento fondamentale che regge la monarchia, la virtù, il disinteresse assoluto, la devozione cieca alla patria è il sentimento fondamentale che regge le repubbliche.
Queste massime del Montesquieu sono alla base delle due prime opere politiche del Canosa: l’Utilità della Monarchia nello stato civile (la prima edizione, del 1795, è dedicata allo zio, Monsignor Enrico Capece Minutolo, vescovo di Mileto e la seconda al cardinale Stefano Borgia) e l’Epistola, ovvero Riflessioni critiche sull’opera dell’avvocato fiscale sig. D. Nicola Vivenzio, intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra (Napoli 1796), in cui pone l’accento sui compiti della nobiltà dell’epoca. In particolare, muovendo dalla considerazione che i feudi moderni non sono più concessi dal monarca come ricompensa per i servigi ricevuti e in cambio del servizio militare prestato dai nobili, ma sono divenuti corpi venali, che possono anche essere acquistati, senza obblighi o vincoli connessi, egli ritiene che sia priva di fondamento giuridico la pretesa del re di imporre il servizio militare ai baroni. Costoro, tuttavia, per il senso dell’onore e della fedeltà che li caratterizza, devono fornire denaro e soldati alla nazione quando questa è in pericolo.
Nemico della Francia rivoluzionaria, il Canosa gode a Napoli fama di anglomane: ammira la dottrina politica di Edmund Burke che «nelle scienze morali, anziché a vane astratte speculazioni, alla sola esperienza attendere si dovesse». Ammirava il conto in cui era tenuta la nobiltà che, secondo Charles James Fox, «dava alle nazioni quel coraggio, quell’energia e quella specie d’intrapresa che inutilmente si spera dalle altre classi dello Stato». Apprezza soprattutto lo spirito di partito inglese, essenzialmente politico e non rivoluzionario sociale antimonarchico come quello continentale.
Assorto nei suoi studi classici e nelle sue polemiche politico-religiose, il Canosa «poco stimolo aveva sentito per il pratico operare». Per completare la sua cultura all’estero, cerca di ottenere il posto di ministro plenipotenziario in Danimarca ma, privo di appoggi a Corte e poco ben veduto dall’onnipotente ministro John Acton per le sue idee aristocratiche, non ottiene l’incarico, senza però farne una tragedia, come scrive ne I Piffari di montagna.
Il Canosa eletto membro della Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità
All’approssimarsi della rivoluzione francese nel 1798, il Canosa è eletto dal sedile di Capuana membro della Deputazione straordinaria del buon governo e dell’interna tranquillità della città, nominato da D. Francesco Pignatelli, principe di Strongoli che il re Ferdinando IV di Borbone, fuggendo in Sicilia, ha lasciato come Vicario generale del regno con poteri dell’Altrui Ego.
Essendo fuggito il Re, la Città di Napoli, come rappresentante la Nazione, pretende di assumere il governo, sulla base delle antiche consuetudini del regno, secondo le quali «nel caso di assenza o d’imbecillità del sovrano, la città di Napoli, deve assumere il governo». La Città considera, pertanto, abuso regio la nomina del Vicario Francesco Pignatelli e, secondo i dettami della tradizione, vuole eleggere la Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna tranquillità, posizione condivisa dallo stesso Canosa. Tuttavia, la monarchia borbonica nel corso degli anni si è andata trasformando da monarchia feudale moderata da privilegi, in monarchia assoluta e la trasformazione è stata così profonda che le rivendicazioni della Città non sembrano più rivendicazioni d’un diritto pubblico ancora esistente, ma sembrano pretese d’instaurare un nuovo regime, la «repubblica aristocratica». Allora, per non rendere visibile al pubblico il conflitto con la Città, il Pignatelli ammette la creazione della Deputazione, ma nomina lui stesso i membri che ne devono far parte, e così il Canosa riceve la sua nomina ufficiale. Il Vicario, il 12 gennaio 1799 annuncia di aver firmato un armistizio con i Francesi, con il pagamento di due milioni e mezzo di ducati. Far pagare alla città una somma simile, senza interpellare prima i Sedili, è giudicato dal Canosa e dagli altri Cavalieri della Città come un nuovo attentato contro i loro diritti, tanto da rompere apertamente i rapporti con il Vicario. La notizia dell’armistizio produce commozione tra i lazzari che si armano proclamando loro comandante Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno e impongono alla città di assumere il governo e di consegnare nelle loro mani il Vicario, considerato un traditore. I Cavalieri della Città cercano di calmare i lazzari e il Canosa è incaricato di scrivere una lettera al Vicario, con la quale la Città raggiunge così il potere il 16 gennaio 1799. Il vero potere è, di fatto, nelle mani dei lazzari, una vera e propria anarchia. Il Canosa, da parte sua, s’impegna al massimo per far vincere i lazzari, salvo combattere al loro fianco.
Dopo che i Francesi sconfiggono i lazzari (20-23 gennaio), il Canosa in un primo momento si rifugia nel monastero di Sant’Agostino alla Zecca e poi ripara in casa di Gaetano de Marco, un tempo suo maestro di scherma, sostenitore ora delle idee giacobine. Molti patrioti lo attendono al varco per vendicarsi.
Per calmare gli animi il Canosa decide di diffondere una memoria manoscritta in sua difesa Memoria a difesa del cittadino Antonio Capece Minutolo di Canosa, in cui giudica calunniose le accuse di aver armato il popolo, spingendolo ad assassinare alcuni patrioti e a saccheggiare le case. In seguito, il Canosa torna alla vita civile grazie al salvacondotto procuratogli dal generale Championnet per l’intercessione della duchessa d’Andria, madre di Ettore Carafa, uno dei capi giacobini napoletani, come ringraziamento per i servigi di un tempo. In quel periodo, il Canosa scrive: «Chi ha saputo mettere piuttosto a pericolo la sua vita che il suo onore e, ciò per un governo vacillante saprà prestarsi eziandio alla difesa della Patria, sapendo divenire buon democratico da buon patriota ch’egli era». Tuttavia, queste parole sono ritenute da Benedetto Croce, nella sua opera Luisa Sanfelice e la congiura dei Bercher, prive di fondamento, e la dimostrazione non tarda ad arrivare. Infatti, non appena si discute sulla legge che prevede l’abolizione delle feudalità, il principe di Canosa scrive Memoria dilucidativa di vari articoli da aversi in considerazione nella abolizione da farsi dei feudi e della Feudalità – del cittadino Antonio Capece Minutolo.
La tesi giacobina sull’abolizione della feudalità è sostenuta da Vincenzo Russo in una memoria a stampa. Vincenzo Russo, nipote di Nicola Vivenzio, intende proseguire quanto lo zio ha avviato al servizio del dispotismo illuminato. Così il Canosa che si è già scontrato con lo zio, si ritrova a combattere contro il nipote. Secondo il Russo «la feudalità non è un diritto», mentre il Canosa sostiene che la feudalità «è una qualità o titolo che, essendo in persona del feudatario in forza di contratto, ha prodotto in esso diritti». I feudatari avevano acquistato i loro diritti in buona fede del Sovrano e i sommi imperanti sono obbligati a mantenere i patti convenuti. Pertanto, conclude il Canosa «la repubblica democratica che ha ereditato gli obblighi dell’abolita monarchia deve quindi o mantenere i feudatari nei loro diritti o indennizzarli». Ma il Russo si ribella all’idea di indennizzare i feudatari.
Il Canosa in carcere a Castel Sant’Elmo e nelle carceri regie di Portanova
Prima che la legge sia pubblicata, il Canosa passa dalla polemica libresca all’azione politica contro la repubblica, non con un’azione pubblica aperta, visto che non è permessa, ma entrando in contatto con le unioni segrete realiste. Coinvolto nella famosa congiura dei Beccher, è arrestato l’8 aprile. Rinchiuso a Castel Sant’Elmo, presidiato dalle truppe francesi, la prigionia non deve essere stata molto severa «a giudicare dalle eroicomiche gesta di cui il Canosa mena vanto». Il Canosa a Sant’Elmo non si limita a simpatiche esuberanze da Don Chisciotte incatenato, come scrive il Maturi, ma continua a complottare contro la repubblica. Alla fine, senza costituto e senza processo, è condannato a morte dall’Alta Commissione militare della Repubblica. Il tenente colonnello d’artiglieria Vitaliani gli porta la sentenza di morte e gli propone però «vari mezzi, onde sottrarsi dalla illegale, immeritata pena» ed il generale francese Méjan lo spedisce addirittura in missione presso Nelson per perorare la causa dei patrioti. Canosa accetta la missione, ma presso Nelson, invece di perorare la causa dei patrioti, parla contro di loro, dando conto all’ammiraglio inglese dello stato delle forze del Castello di Sant’Elmo, prima di tornare.
«Dopo aver sostenuto fino all’ultimo la resistenza della plebe contro i Francesi nel gennaio 1799, dopo aver congiurato contro la Repubblica, sperava che la Corte avrebbe steso un velo sul suo aristocraticismo.» I Borboni però non hanno dimenticato, né perdonato e fin dal I° maggio Ferdinando IV inserisce, tutti coloro che hanno fatto parte della Deputazione straordinaria, in una lista di persone da fare arrestare e giudicare con tutto il rigore delle leggi da una commissione straordinaria composta da «pochi ma scelti ministri»(dalla Lettera di Ferdinando IV al cardinale Fabrizio Ruffo e da A. Dumas I Borboni di Napoli, Napoli 1862).
Il Canosa, quindi, uscito dalle carceri repubblicane, in seguito alla capitolazione del castello di Sant’Elmo firmata l’11 luglio, è nuovamente rinchiuso nelle carceri regie di Portanova con la feccia dei delinquenti.
Il Canosa e gli altri cavalieri della Città sono accusati d’insubordinazione verso il Vicario Pignatelli e di aver tentato di trasformare la Costituzione dello Stato, creando una “repubblica aristocratica”, ed in particolare il Canosa per aver scritto la lettera con la quale la Città aveva intimato al Pignatelli di cederle i suoi patrizi. Canosa viene condannato a 5 anni di castello da scontare a Trapani. I Cavalieri della Città sono puniti per insubordinazione al Vicario generale nella difesa dei privilegi della Città (28 marzo 1800). Alla condanna dei Cavalieri della Città, segue l’editto del 25 aprile 1800, l’atto più rivoluzionario, a giudizio del Maturi, compiuto dal dispotismo illuminato borbonico, col quale sono abolite le Piazze o Sedili e la nobiltà napoletana è quindi distrutta come corpo politico.
Un novello eroe della Mancia destinato a combattere contro i mulini a vento della sua fantasia politica
Al trattato di Firenze del 28 marzo 1801, Napoleone Bonaparte impone a Ferdinando IV di amnistiare tutti i condannati politici del suo Regno. Così il Canosa lascia il castello di Trapani e il 9 luglio è di nuovo a Napoli. Dimostrare l’assurdità della trasformazione della monarchia – scrive il Maturi – in aristocrazia è per il Canosa «come il donchisciottesco combattere contro i mulini a vento» e lo fa solo per rispondere ai suoi accusatori. Il Canosa crede che la monarchia, con l’appoggio dell’Inghilterra e delle forze conservatrici europee antirivoluzionarie e antifrancesi col fascino storico che ancora gode sulle masse, illuminata dalla vera politica, potrebbe risalire la corrente e rimediare agli errori della sua politica antifeudale ed anti-ecclesiastica, ma la monarchia, secondo il Maturi, non può avere alcun interesse a distruggere la sua opera secolare né sente di poter ristabilire le cose come prima. Il Canosa, perciò, è costretto a lottare per tutto il resto della sua vita «qual novello eroe della Mancia», scrive il Maturi, «contro i mulini a vento della sua fantasia politica». Il principe di Canosa, intanto, riprende gli studi e due anni dopo la scarcerazione dà alle stampe il Discorso sulla decadenza della Nobiltà, in cui individua la causa del declino di questo fondamentale ceto nella crisi del regime monarchico prodotta dalla dissennata politica di accentramento, che contribuisce a demolire la società tradizionale organica e cristiana.
Con l’invasione francese del 1806 nel Regno di Napoli, Canosa decide di seguire i Borboni in Sicilia. Sorregge il Canosa «nella sua vendetta da Cavaliere» la tradizione della famiglia Capece, la cui incrollabile fedeltà agli Svevi, ha avuto la sua consacrazione anche nella letteratura, nella novella del Boccaccio (Decamerone, Giornata seconda, Novella sesta) dedicata a madama Beritola, moglie di Arrighetto Capece.
Il Canosa, in seguito ad una sua richiesta, è ammesso nell’esercito borbonico, abbandonando moglie, figli, patria, libri, patrimonio per seguire i principi reali Francesco e Leopoldo. Tuttavia, solo la regina Maria Carolina comprende il suo gesto e prima della partenza per la Sicilia, lo riceve a Corte e gli dice: «In mezzo a numeroso circolo di Donne e Cavalieri: venite figlio mio, oh come è stato perfidamente ingannato il Re sul conto dei veri suoi fedeli!» (da Apocalisse politica, del Canosa).
Se l’interesse personale di napoletano compromesso e la fedeltà ai vecchi Sovrani determinano il posto di battaglia del Canosa nelle lotte politiche siciliane, non modificano invece il suo pensiero in fatto di politica interna ed estera. Se la Corte dei Borboni è stata condotta sull’orlo della rovina, la colpa è da attribuire «agli errori e alla inconsideratezza di un ministero imprudente», che vuole abbattere in Sicilia i diritti dei Baroni, come li ha abbattuti a Napoli. La politica del vicario Francesco, tendente a salvare il salvabile, è approvata dal Canosa che nell’Apocalisse politica così scrive: «Il virtuosismo erede della Corona chiamato sempre a salvare i moribondi, salvò lo scettro e la Sicilia, ravvicinandosi non solo i Magnati Siciliani al Real Trono, ma ripristinando ancora quella reciproca fiducia ed armonia coll’alleata Gran Bretagna protettrice». Caduto Napoleone, ma stabilitosi sul trono di Napoli Gioacchino Murat col trattato dell’11 gennaio 1814 con l’Austria e con l’armistizio del 3 febbraio successivo con l’Inghilterra, al primo annunzio della dichiarazione di guerra intimata da Gioacchino Murat all’Austria, il Canosa parte da Madrid, dove si è recato al seguito dei principi reali.
Ritorna a Napoli portando con sé della Spagna l’immagine di una restaurazione integrale, rappresentata dai primi atti della politica di Ferdinando VII e la Gran Croce della Concezione Immacolata che Ferdinando VII aveva voluto concedergli «in premio del suo decisivo attaccamento alla casa di Borbone, ed inimicizia a tutti coloro che si dicano Bonapartisti». Questa volta non è accolto dalla sua patria come un dottrinario fallito, qual è sembrato al ritorno dal castello di Trapani, dopo la causa della città, ma come un generoso cavaliere che potrebbe far trionfare il buon diritto e raddrizzare i torti.
La politica dell’amalgama del cav. Luigi de’ Medici, agli antipodi del pensiero del Canosa
L’origine di queste ingiustizie è nella politica dell’amalgama, adottata dal cav. Luigi de’ Medici, principe di Ottaiano, al quale Ferdinando IV, divenuto Ferdinando I delle Due Sicilie, affida più volte la direzione del suo governo. Il sovrano perde così l’occasione per operare una restaurazione efficace, accontentandosi di quella politica di “conciliazione”, cioè di compromesso con i vecchi rivoluzionari, favorita in Europa da Klemens Lothar Wenzel, principe di Metternich (1773-1859). Il primo uomo politico a tentare in pratica tale sistema è stato Napoleone Bonaparte che promuove la diffusione del sistema a Napoli, attraverso il fratello Giuseppe e il cognato Gioacchino Murat, anche se a Napoli gli oppositori di quel metodo sono stati gli ex-giacobini che non volevano amalgamarsi con i borboniani (C. De Nicola, Diario napoletano).
Nessuno meglio del cav. de’ Medici può impersonare a Napoli il sistema dell’amalgama. Anche lui viene alla politica dalla cultura, come il Canosa, ma da quella progressiva, attingendo alle dottrine del razionalismo illuminista. Credente nella Raison, per lui un Re o un ministro illuminato avrebbe potuto far più bene alla civiltà che un’assemblea. Non concepisce la necessità delle lotte dei partiti. La Restaurazione è da lui salutata come la possibilità di porre fine alle lotte di parte.
Il Medici è agli antipodi del Canosa: «sembrerebbe, anzi, che i due rivali si fossero diviso tra l’uomo come animale politico e l’uno si fosse presa tutta la parte razionale, l’altro tutta quella irrazionale e tanto all’uno quanto all’altro mancavano quelle virtù sintetiche che costituiscono il grande uomo di Stato».
I due uomini si erano già scontrati in Sicilia. Il Medici non approva i metodi politici e pubblicistico-polemici del Canosa; il Medici esita a dare al Canosa un posto al ministero di Polizia che regge interinalmente. Il Re, dal canto suo, sin da quando gli è stata assicurata la restituzione del Regno di Napoli, ha pensato di dare al Canosa il Ministero di Polizia, lasciando trapelare al Medici questa sua intenzione.
Al Canosa non sembra che il Ministero di Polizia sia in quello stato perfetto di organizzazione, in cui il Medici assicura di averlo lasciato. Per rimuovere alcuni che l’hanno combattuto quando egli aveva progettato i suoi piani di controrivoluzione all’isola di Ponza e sostituirli con altri di provata fede borbonica, deve sostenere dure lotte col Medici che non vuole violare gli impegni presi con l’Austria di Ferdinando IV, di non togliere ai murattiani le cariche da essi occupate. In quest’opera di epurazione lo incoraggia il principe Francesco che vuole mettere a posto alcuni suoi protetti benemeriti della causa borbonica. Nulla può ottenere in questioni nelle quali il Medici è ritenuto competentissimo.
Credente nel libero commercio dei grani con la fede cieca di un economista del secolo XVIII, il Medici invece si rifiuta di prendere qualsiasi provvedimento per impedire il rincaro del pane dovuto alla penuria del grano. Pure nella questione siciliana il Medici, per razionalizzare e uniformare secondo il gusto del secolo XVIII le istituzioni dei Regni di Napoli e di Sicilia, caldeggia la loro completa fusione, mentre il Canosa, in base al principio del “divide et impera”, sostiene che i due Regni debbano conservare la vecchia reciproca autonomia, che durante la crisi rivoluzionaria e napoleonica ha garantito la loro sopravvivenza, facendo leva sulla Sicilia per riacquistare Napoli. La questione del libero commercio del grano e la questione siciliana restano tuttavia di competenza del Medici, mentre sul problema delle società segrete scoppia il conflitto decisivo tra i due.
Il problema delle società segrete riguarda tanto il Canosa come ministro di Polizia, quanto il Medici che, sebbene non abbia il titolo, esercita di fatto, per la fiducia concessagli dal Re, le funzioni di primo ministro. Da generali di divisione, intendenti di provincia, procuratori generali, vescovi pervengono al Canosa notizie di rapidi progressi della Carboneria. Il Canosa propone straordinarie misure di rigore, approvate dal Re, nonostante l’opposizione del Medici e del suo amico Donato Tommasi, ministro di Grazia e Giustizia, nel Consiglio del I° marzo 1816. Tra il mago della Finanza e il fedele Canosa, tuttavia, il Re sceglie il primo, firmando un decreto con cui esonera il Canosa dall’incarico di Ministro di Polizia. Così da Livorno, dove il Canosa vive dall’ottobre 1816, si trasferisce a Pisa nell’aprile 1817.
La Summa del pensiero politico del Canosa nelle sue opere
Gli ritorna la passione per lo studio tanto da ammalarsi gravemente. L’opera che produce in questo periodo Perché il Sacerdozio dei nostri tempi, e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi, ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei Re, rappresenta la Summa del suo pensiero politico. In seguito, scrive I Piffari di montagna (prima edizione Lucca 1820), un pamphlet che ha avuto una larga diffusione e rappresenta uno dei più famosi scritti del Canosa. Il leit-motiv contenuto, secondo cui le «ottime legislazioni non sono buone per tutte le nazioni e per tutti i tempi», ha l’unica funzione di spiegare il fenomeno dell’Inghilterra liberale, che le classi reazionarie dell’Europa continentale rispettano, perché ad essa devono le loro riscosse e in essa è tenuto ancora nel debito conto la nobiltà. Rappresentano in parte un’autobiografia mista a un manifesto di tendenza politica contingente. L’ideale di politica contingente per il Canosa è una monarchia fondata sulla religione e sull’aristocrazia, ma per restare tale bisogna prima spegnere lo spirito rivoluzionario che cova ancora nelle società segrete liberali.
L’esigenza controrivoluzionaria obbliga il Canosa, sostenitore della vecchia libertà feudale ed ecclesiastica a postulare un regime dispotico e paradossalmente a trovarne la personificazione ideale in Napoleone e in Gioacchino Murat e lo strumento più forte nella Polizia. E così Canosa e Medici che si sono divisi l’uomo in quanto animale politico, si dividono anche l’eredità napoleonica e l’uno prende la Polizia e l’altro le istituzioni civili. Il sistema del Canosa culmina nel dilemma del De Maistre: papa o rivoluzione. Il papa nel secolo XVIII ha intuito ed esorcizzato il pericolo massonico: se i sovrani avessero ascoltato il suo monito, come ha fatto il Canosa, le riforme settecentesche e la rivoluzione non sarebbero avvenute.
Pur essendo debole, la monarchia napoletana contro la setta rivoluzionaria carbonara, il Medici non percepisce il pericolo, riconducendo sull’orlo della rivoluzione la monarchia napoletana. Questa è la polemica su cui s’incentrano I Piffari di montagna. Il libro esce nel maggio 1820 e nel luglio successivo la rivoluzione carbonara scoppia a Napoli, dandogli quasi un valore di profezia.
Il Canosa ministro di Polizia
Il successo del libro gli vale la nomina di ministro di Polizia da re Ferdinando al posto del Medici. Compie subito un’opera di epurazione del personale, procedendo alla nomina di nuove persone. Così vuole eliminare tutti quelli che, membri della classe dirigente napoletana, sono stati, prima, giacobini, poi murattiani, infine costituzionali e mettere ai posti di comando coloro che sono stati fedeli al Re. «Cavalleresco con le donne ed indulgente con i Don Abbondio, Canosa inventò una pena nuova contro i carbonari che osassero agire sotto il suo ministero: la frusta». La frusta è così applicata ai delitti politici, ottenendo l’approvazione del governo provvisorio.
Il metodo giudiziario napoletano, creato dai Francesi nel Decennio e mantenuto nel Quinquennio dal Medici e dal marchese Donato Tommasi, non sembra adatto, secondo il Canosa, a «un popolo corrotto, proclive tanto nei delitti e che ha sofferto in pochi anni molte rivoluzioni e disordini che lo hanno interamente demoralizzato». Il Re è completamente d’accordo col Canosa e perciò prescrive di procedere militarmente contro i principali rivoluzionari. Contro di essi si leva il forte senso di legalità dei vecchi austriaci che, alla fine, riescono ad ottenere le dimissioni del Canosa dalla carica di ministro. Assunta la carica di consigliere di Stato, il Canosa non riesce ad intrattenere rapporti cordiali con i diplomatici esteri. Così, spalleggiato l’uno dal suo partito degli ultra napoletani, spalleggiati gli altri dagli innumerevoli nemici che il Canosa si è fatto, si riprende la lotta senza quartiere su due fronti: sul fronte dell’opinione pubblica e su quello diplomatico. Sul primo fronte dirige le azioni contro il Canosa Flaminio Barattelli, un avversario privo di scrupoli. Si fruga, intanto, nella vita intima del Canosa e si diffonde la voce che egli, ancora in vita la prima moglie, Teresa Galluccio dei Duchi di Toro, da cui ebbe il figlio Fabrizio, abbia contratto a Pisa una relazione amorosa, portando poi con sé, a Napoli, i figli (due femmine ed un maschio), avuti dall’amante Anna Orselli (figliola di un cenciaio) che ha sposato una volta rimasto vedovo. Quest’ultima gli rimane fedele compagna fino alla sua morte. Nel novembre 1821 è diffusa a Napoli una Memoria tradotta dal tedesco, nella quale si rivelano gli abusi di potere, gli arresti e le pene arbitrarie che avrebbero caratterizzato il ministero di Polizia del Canosa, mentre si loda il generale Frimont per averlo abbattuto. Seguono una serie di libelli da entrambe le parti. Il più notevole è la seconda edizione de I Piffari di montagna, pubblicati a Lucca nel dicembre 1821. Alla fine le pressioni austriache e le azioni mirate a diffamare l’operato del Canosa, portano all’allontanamento del Canosa dal Regno, disposto da re Ferdinando I suo malgrado.
L’esilio del principe
Negli anni seguenti, percorrendo la penisola in esilio, il principe cerca di coordinare l’azione di quanti, laici e religiosi, intendano dare un carattere di maggiore incisività e profondità alla Restaurazione. Tra questi figurano: il padre teatino Gioacchino Ventura, fondatore de l’Enciclopedia Ecclesiastica e Morale a Napoli, nel giugno del 1821, che vagheggia una nuova forma di apostolato laicale; il marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, che anima in Piemonte, prima le Amicizie Cattoliche e poi il periodico L’Amico d’Italia; l’apologista modenese, monsignor Giuseppe Baraldi, fondatore della rivista Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura; il conte Monaldo Leopardi che, a Pesaro, fonda il periodico La Voce della Ragione, con una tiratura di duemila copie.
Da questi cenacoli, però, non si sviluppa una struttura laicale organizzata, soprattutto a causa del persistente giansenismo e del regalismo diffusi presso il ceto colto, della tradizione giurisdizionalistica, ancora viva nelle maggiori corti, in particolare a Napoli e a Torino, della diffidenza di alcuni monarchi verso gli esponenti della classe dirigente, saldamente ancorati a principi contro-rivoluzionari.
Il Canosa si stabilisce così a Genova, poiché a Pisa, dove avrebbe voluto ritornare, c’è un clima teso: i suoi metodi come ministro di Polizia hanno scandalizzato l’ambiente moderato liberaleggiante locale. L’unica possibilità immediata d’azione pratica è rappresentata dal congresso di Verona: occorre trovare un alto personaggio che difenda le sue idee e la sua persona presso i sovrani della Santa Alleanza e presso lo stesso re Ferdinando I. Per tale ufficio pensa al duca di Modena, Francesco IV d’Asburgo-Este, dotato di una forte personalità, nonché di notevole chiarezza di vedute e di grande coerenza di principi ed a favore delle posizioni legittimistiche. «È forse l’unico Stato d’Italia», scrive il principe di Canosa nel 1822 «in cui il buon partito della monarchia ha qualche energia, ed ove si parla e si scrive in favore della buona causa. Questo fenomeno assai singolare dipende dalla fermezza e decisione di cui si vede rivestito il cuore del sovrano, il quale non transige con i rivoluzionari, ma mostra intrepido loro il petto e il volto, perseguitando i nemici della religione e della monarchia». Ottiene il suo appoggio grazie al conte Girolamo Riccini, intendente dei beni camerali ed ecclesiastici del Ducato. L’11 agosto 1830 Canosa si reca a Vienna per parlare con il Metternich, che si mostra ostile nei suoi confronti, ritenendo il Canosa nemico dell’Austria, a causa di una brochure diffusa a Napoli e attribuita allo stesso principe, nella quale si dimostra che tutti i mali del Regno derivano dall’occupazione austriaca.
Il Metternich lo riceve solo a fine mese, mostrandosi magnanimo verso il Canosa e chiedendogli una giustificazione scritta che il Canosa gli invia il 27 agosto, seguita il 31 agosto da una supplica all’imperatore Francesco I. Tuttavia, la morte di Francesco I e l’avvento al trono di Napoli di Ferdinando II, fanno tramontare l’ultima speranza del Canosa di rientrare in patria da ministro. Alla corte di Modena, il principe di Canosa trascorre gli anni dal 1830 al 1834, collaborando a La Voce della Verità, diretta dallo storiografo Cesare Carlo Galvani, guardia d’onore di Francesco IV, e affrontando, fra i primi in Italia, la crisi di alcuni intellettuali cattolici, che apre la strada al liberalismo cattolico. Scrive anche per L’amico della gioventù e si avvale della tipografia Camerale modenese che gli consente di pubblicare i suoi opuscoli senza alcun intralcio di censura. Tra gli scritti del periodo: Sulla proporzione delle pene secondo la diversità dei tempi (Modena 1831); I miracoli della paura (Modena 1831); I piccoli piffari (Parigi, agosto 1832); Un dottore in filosofia e un uomo di Stato (Modena, dicembre 1832); Sulla corruzione del secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee (Italia 1833); L’enciclica del 15 agosto 1832 ed il Giansenismo del secolo XIX (Italia 1833). Il Canosa diviene così uno dei più prolifici autori di pamphlets di un genere letterario politico.
Una personalità indomita e uomo di governo
Sia i pamphlets, sia gli articoli del Canosa devono la loro forma all’indomita personalità che rivelano e alle feconde reazioni che producono. Il Canosa diventa così quasi il simbolo della reazione d’Italia ed è più temuto del conte Monaldo Leopardi, sceso in campo per suo conto nel 1832 con la Voce della Ragione, perché aveva una personalità più prepotente e, oltre che intellettuale, è stato uomo di governo, ricordato per il famoso supplizio della frusta applicato ai carbonari e perché molti liberali devono a lui l’esilio.
Le nuove generazioni politiche italiane rivoluzionarie o moderate – i Mazzini, i La Cecilia, i Capponi, i Tommaseo – devono il ritratto fosco del Canosa a Pietro Colletta che tramanda l’odio dei vecchi giacobini, dei vecchi murattiani, dei vecchi costituzionali di Napoli. Le accuse fatte al Canosa sono sempre le vecchie accuse. La forza morale, in nome della quale lo si combatte, è sempre il «genio immortale del secolo», inteso come legge fatale del progresso, cioè come libertà e civiltà. Tale forza comincia a pervadere anche quel risveglio del cattolicesimo, necessario per un programma di restaurazione integrale voluto dal Canosa. A Modena riprende una delle sue grandi idee direttrici: quella di un’organizzazione uniforme di tutte le polizie degli Stati italiani (come negli Stati tedeschi, dove è stata creata la Commissione generale di Magonza). L’attacco più cruento nei confronti del Canosa è rappresentato dalla Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, che scrive: «Vivi o morti, il Canosa da buon cavaliere non si era tenuto mai nulla da nessuno e non aveva lasciato mai un oltraggio ricevuto senza la debita reazione.»
Il Canosa, anche in questo caso, reagisce con il consueto vigore alle accuse mossegli dal Colletta scrivendo l’Epistola contro Pietro Colletta, in cui contrappone la verità dei fatti a una mendace storiografia e i suoi ideali incontaminati all’ipocrisia dei liberali.
Il Canosa si trova ormai in ristrettezze finanziarie perché, fin dal primo giorno del 1831, il governo di Napoli gli ha ridotto i suoi assegni; il duca di Modena gli ha tolto una pensione di 500 franchi al mese, come ricompensa per aver esposto la sua vita al suo servizio, nella giornata del 3 febbraio 1831, quando fu attaccata la casa di Ciro Menotti. Per risollevare un po’ le sue finanze, riprende l’idea di pubblicare le memorie sulla morte di Gioacchino Murat e sulla sua cacciata dal Regno nel 1822 e lancia a tal proposito un manifesto nel settembre 1834, pensando che la Corte di Napoli, dietro la minaccia della pubblicazione di documenti per essa poco onorevoli, avrebbe allargato i cordoni della borsa, ma ciò non accade, anzi si cerca di dissuadere il Canosa dalla pubblicazione. Il Canosa è disposto a perdere anche la pensione che percepisce, pur di non rinunciare all’impresa. La Corte di Napoli è disponibile al rientro in patria del Canosa e tutte le sue richieste di ottenere il grado di generale o un posto in diplomazia o reintegrato nell’assegno degli ottomila ducati annui che ha goduto fino al 1831, non ottengono soddisfazione.
Passa, quindi, nello Stato Pontificio, dove cerca di promuovere la costituzione di volontari armati legittimisti, e finalmente, nel maggio 1835, fissa la sua dimora a Pesaro, dove c’è una buona tipografia, quella del libraio Nobile.
Gli ultimi anni della sua vita
Il Canosa fa venire a Pesaro la sua famiglia che ha lasciato a Modena e vive in estrema miseria negli ultimi anni della sua vita, come si può attingere dalle opere di D. Petrini Tra i legittimisti dell’Ottocento: gli ultimi anni del principe di Canosa (pp. 513-553) e di G. Monti Un epistolario inedito del principe di Canosa in esilio, pubblicato in Per la storia dei Borboni di Napoli e dei patrioti meridionali (Trani 1939 pp. 288-302), ma non ha intenzione di morire nelle vesti terribili del conte Giuliano, la cui immagine gli è apparsa così suggestiva nel 1826–27, bensì in quelle più nobili di Belisario. Sospesa l’idea di vendicarsi con gli scritti della sua cacciata da Napoli nel 1822, si presenta ai suoi discepoli, come il Belisario della legittimità: diffonde in un opuscolo una sua supplica al re di Napoli, in cui si espongono le sue tristi condizioni e fa pubblicare ne La Voce della Ragione un sonetto Date obolum Belisario, in cui egli «ramingo, povero e vetusto» è compianto amaramente, mentre in un commento il conte Monaldo Leopardi, pur non approvando certe intemperanze di lui, dichiara: «Egli è l’Argante dei Re e bisognerebbe avere l’anima di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono in difesa della legittimità. In sostanza, fu il patriarca dell’empietà, La Fajette è stato il patriarca della bugiarda libertà, e Canosa è incontrastabilmente il patriarca del realismo e della legittimità.» (La Voce della Ragione). Scrive il Maturi: «Fissata in tutte le sue lettere e in tutti i suoi scritti di quegli anni, l’immagine di Belisario commosse i legittimisti del tempo e un’ondata calda di simpatia e di ammirazione avvolse il nobile ma infelice cavaliere.»
Come a Genova, a Livorno, così a Pesaro, il Canosa non fissa la sua dimora in città, ma nel villaggio vicino di Santa Maria delle Fabbrecce, dove prende alloggio nel palazzo Almarigi con la moglie e le due figlie del secondo letto. Ex ministro di Polizia, il Canosa non si fa alcuno scrupolo di combattere i rivoluzionari, oltre che con gli scritti, con le denunce poliziesche. Lo ritiene un dovere d’ogni buon legittimista e «soleva ripetere il detto tertulliano: contra reos majestatis et publicas hostes omnis homo miles est.» Quella giustizia, quella comprensione che i sovrani, gli uomini di Stato e gli uomini di Chiesa gli hanno negato, egli le invoca da una donna, la duchessa di Modena, Maria Beatrice di Savoia.
Le donne sono state per lui meno cieche degli uomini e mai i liberali o i ministri liberaleggianti o massoneggianti sono riusciti a trarre in inganno sul suo conto Maria Carolina di Napoli, Maria Luigia dei Borboni – Parma duchessa di Lucca e Cristina di Sardegna, moglie di Carlo Felice. La stessa fiducia egli ha in Maria Beatrice che gli ha conservato la sua benevolenza, mantenendo una corrispondenza con lei anche dopo il dissidio con il conte Riccini. Le invia una copia della sua risposta manoscritta al conte Riccini con la preghiera di perorare la sua causa presso il marito, il duca Francesco IV perché salvasse il suo onore.
Il Canosa ormai un lione moribondo o stanco lione
È l’ultimo atto della sua vita avventurosa. Belisario della legittimità, milite eternamente mobilitato contra reos majestatis et publicas hostes, ultimo dei cavalieri, il Canosa per preparare gli amici alla sua dipartita, assume spesso l’immagine del lione moribondo o dello stanco lione. Si ferma talvolta anche sul problema dell’al di là e gli sorge il dubbio che potrebbe sbagliare nell’al di là come ha sbagliato nell’al di qua.
«Dicono i moralisti» – confida ad Angelo Maria Ricci in una lettera del 18 luglio 1837 – «che conviene consolarci col futuro. Iddio difatti non creò l’uomo per la terra ove nasce, figura e muore quasi in pochi istanti. Tale consolazione però è ottima per voi che siete ottimo cristiano ed avete avuto con temperamento freddo una gran pazienza e rassegnazione. Per me trovo assai facile che, dopo averla sbagliata nel tempo, posi i miei gran malanni nell’eternità. Iracondo, intollerante, avverso per natura ai somari, in sostanza sono affetto da tante pecche che non rincorano punto onde persuadersi esser degni di predestinazione. Io potrei dunque agevolmente sbagliare di qua e di là… Basta, sarà ciò Dio vuole.»
Il 31 dicembre 1836 muore la seconda moglie, Anna Orselli da Pisa, sposata nel 1821 ad un anno dalla morte della prima, e dalla quale ha avuto due figlie ed un figlio.
A distanza di nemmeno un anno si diffonde la notizia di probabili terze nozze. «Credo» – comunicava il conte Monaldo Leopardi all’amico Luigi Palmieri in una lettera datata 3 settembre 1837- «che il principe di Canosa sia passato alle terze nozze sposando una cuffiara romana. Almeno così si dice.» La notizia è assai verosimile. Effettivamente il Canosa si fa assistere negli ultimi mesi della sua travagliata esistenza da una donna di bassa condizione, romana, tale Teresa Gabellini, con la quale sembra abbia contratto una relazione da alcuni anni. In ogni caso, dopo la morte del Canosa, avvenuta per un colpo di apoplessia il 4 marzo 1838, la fedele Teresa Gabellini continuerà a firmarsi per tutta la sua vita vedova Canosa.
La morte del Canosa passa quasi inosservata. I Borboni di Napoli, che egli ha servito con tanta devozione, non si preoccupano d’altro che delle sue Carte (Nelle note del libro del Maturi: «Il governo borbonico, credendo di trovare nel cardinale Riario Sforza, suddito napoletano, un funzionario compiacente, si era rivolto direttamente a lui, all’insaputa del cardinale Lambruschini, per avere le carte del Canosa, ma il Riario Sforza si rifiutò di consegnarle e le inviò a Roma. Tuttavia, il Lambruschini fece consegnare alla legazione napoletana tutto ciò che riguardasse la Corte di Napoli e disse che il resto lo avrebbe dato in fiamme: lo fece conservare invece nell’Archivio Segreto Vaticano») e nessun elogio si leva in suo onore. Lo accompagna nella tomba solo il rimpianto del fratello d’armi dell’ultima grande battaglia per la buona causa legittimista, il rimpianto del conte Monaldo Leopardi, ma quel rimpianto contiene l’elogio da lui tanto sognato nei suoi squarci autobiografici.
«È una vergogna dell’Italia e uno scandalo nel partito della legittimità che non si alzò una voce d’encomio per questo grande uomo. Aveva i suoi difetti, ma nessun uomo ne va esente e le accuse che potevano promuoversi contro di lui, per la troppa veemenza con cui si scagliava contro gli individui, vengono in gran parte giustificate dal considerare che egli, e forse non a torto, vedeva sempre il partito delle persone. Del resto, Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano.» (Dalla lettera di Monaldo Leopardi a Luigi Palmieri 21 marzo 1838).
Dott.ssa Giuseppa Varriale detta Giosita
Novella di Andreuccio
da Perugia Novella quinta, seconda giornata dal Decameron (1349/1353) di Giovanni Boccaccio
Un giovane mediatore di cavalli di Perugia, chiamato Andreuccio, figlio di
Pietro, decise di partire, insieme ad altri mercanti di cavalli, alla volta di
Napoli, dove c’era un «buon mercato di cavalli», portando con sè 500 fiorini
d’oro. Arrivato al mercato vide molti cavalli e si fece notare per la sua borsa
piena di denari nel corso di diverse trattative per l’acquisto di cavalli. Tra
queste persone ci fu una giovane «siciliana bellissima», che per una ben
piccola ricompensa era disposta a compiacere qualunque uomo. Insieme alla
giovane c’era una vecchia signora che avvicinò Andreuccio, mostrandosi molto
affettuosa, al fine di estorcergli informazioni su di sè, la sua famiglia ed il
luogo in cui alloggiava. Così la sera una «fanticella» si recò nel suo albergo
e convinse Andreuccio a seguirla nella dimora della giovane siciliana che si
trovava nella contrada Malpertugio.La giovane, appena vide Andreuccio, gli
corse incontro e lo abbracciò molto teneramente, dandogli il benvenuto. Il
giovane di Perugia, molto sorpreso per la calorosa accoglienza, fu condotto
dalla giovane nella sua camera da letto, tutta odorosa di rose e fiori
d’arancio con un letto «incortinato» e con «assai belli e ricchi arnesi», tanto
da ritenere, vista la sua inesperienza, che fosse una gran donna. Messisi a
sedere sopra una cassa ai piedi del letto, la giovane spiegò ad Andreuccio il
motivo della calda accoglienza. Gli rivelò che anche lei era figlia di suo
padre Pietro (erano quindi fratellastri) il quale, nel periodo in cui aveva soggiornato
a Palermo, incontrò sua madre e dalla loro relazione nacque lei che fu poi
abbandonata, insieme alla madre, dal padre che fece ritorno a Perugia. Divenuta
grande, la madre «ricca donna», l’aveva data in moglie ad «uno da Gergenti,
gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare in
Palermo». In seguito alla sconfitta degli angioini (si legge nelle note: «La
Sicilia era stata perduta dalla dinastia angioina nel 1282 in seguito alla
famosa guerra del Vespro»), visto che suo marito era guelfo e quindi
parteggiava per gli angioini, furono costretti a fuggire dalla Sicilia,
lasciando proprietà terriere ed immobiliari. Si rifugiarono così a Napoli, dove
regnava il re Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo (regnò a Napoli dal 1285 al 1309)
che li risarcì in parte delle perdite subite donando loro varie proprietà.
Andreuccio, dal canto suo, ricordandosi che effettivamente il padre era
stato a Palermo, in gioventù, finì per credere al racconto fantasioso della
giovane donna che riconobbe come sua sorella. A quel punto desiderava tornare
in albergo, ma la «falsa sorella» insistette perchè rimanesse a cena a casa
sua, promettendo di provvedere ad avvertire il suo albergo che non sarebbe
rientrato quella notte. Continuarono a parlare di parentele fino a tarda notte,
poi la giovane donna diede ad Andreuccio una camera per dormire. Andreuccio si
spogliò per il gran caldo che sentiva e ripose gli abiti tolti «al capo del
letto». Andreuccio ebbe bisogno di andare al bagno e chiese ad un fanciullo
quale fosse la porta della stanza. Entratovi, mise un piede su una tavola che
lo catapultò giù al di sotto del bagno, così si imbrattò tutto di liquami
fetidi. Era finito in una viuzza stretta tra due case. Andreuccio dolorante
cominciò a chiamare il fanciullo che, avendolo sentito cadere, corse a dirlo
alla donna, la quale si recò in camera e cercò svelta i suoi vestiti e quindi i
denari che Andreuccio portava sempre con sè non fidandosi di lasciarli in alcun
luogo. Così la donna palermitana, «fingendosi sorella di un perugino», gli
aveva teso un tranello. Corse poi a chiudere «l’uscio dal quale egli era uscito
quando cadde». Andreuccio, intanto, continuava a chiamare forte il fanciullo,
ma non ricevendo risposta, capì di essere stato ingannato. Ritornò ancora
sull’uscio della casa della donna dando più volte dei forti colpi alla porta;
ormai si era reso conto della sua disavventura, tanto da esclamare: «Aimè
lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella! »
Andreuccio non sapendo cosa fare continuò a battere l’uscio di madonna
Fiordaliso con una pietra, finchè non decise di andarsene dopo aver sentito
dall’interno dell’abitazione una voce spaventosa di un uomo che dal tono che
usò non lo fece più esitare. Nel frattempo, anche i vicini, svegliati dal gran
trambusto, gli consigliarono di allontanarsi al più presto, mossi da pietà
verso il povero giovanotto beffato. Imbarazzato per essere in quelle
condizioni, per di più con un odore raccapricciante, si allontanò dirigendosi
verso la parte alta della città, percorrendo la via Catalana.Si rifugiò in un
casolare, avendo visto due uomini, che temeva fossero sgherri, venire verso di
lui con una lanterna. Tuttavia, questi due uomini proprio in quel casolare
entrarono per scaricare «certi ferramenti». Mentre parlavano uno di loro disse:
«Che vuol dire questo? Io sento il maggior puzzo che mi paresse sentire; e
questo detto, alzata alquando la lanterna, ebber veduto il cattivel
d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là? » In un primo momento,
Andreuccio non rispose, ma poi, scoperto dai due uomini che lo illuminarono con
la luce della lanterna, fu costretto a raccontare la sua disavventura. E i due
uomini capirono che era finito nella casa del capo della malavita Buttafuoco.
Lo consolarono dicendo che era stato fortunato ad essere uscito da quella casa,
altrimenti se fosse rientrato non solo avrebbe perso i suoi denari, ma anche la
sua vita. Gli uomini dissero di provare compassione per lui e perciò lo
invitarono ad accompagnarli a fare una cosa che gli avrebbe fatto guadagnare di
più di quanto aveva perduto. «Era quel dì seppellito uno Arcivescovo di Napoli,
chiamato messer Filippo Minutolo (dignitario del Regno e vescovo di Napoli,
morto nel 1301), ed era stato seppellito con ricchissimi ornamenti e con un
rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorini d’oro, il quale
costoro volevano andare a spogliare». Rivelarono queste cose ad Andreuccio che
decise di seguirli. Mentre si dirigevano verso la chiesa maggiore, decisero di
far lavare Andreuccio che puzzava tanto. Giunti presso un pozzo, calarono
Andreuccio giù per il pozzo legandolo alla fune visto che non c’era il secchio
ed una volta lavato lo avrebbero tirato su sempre con la fune. Tuttavia,
accadde che alcune persone che vivevano lì vicino appartenenti alla famiglia
della signoria, andarono al pozzo a bere e tirarono su la fune, a cui era
legato Andreuccio che tornato su mise in fuga tutti per lo spavento. Ritrovati
i due uomini, verso la mezzanotte Andreuccio li seguì nella chiesa maggiore.
Qui, con l’aiuto dei loro strumenti riuscirono a sollevare e a puntellare il
coperchio del sarcofago dell’Arcivescovo. Siccome nessuno dei due voleva
calarsi nel sarcofago, costrinsero Andreuccio ad entrare nella tomba.
Andreuccio, dal canto suo pensò: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi,
per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre io penerò ad uscir
dell’arca, essi se n’andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna. »
Pertanto decise di procurarsi prima la sua parte. Ricordatosi «del caro anello
che aveva loro udito dire, come fu giù disceso, così di dito il trasse
all’Arcivescovo e miselo a sé. » Ai due uomini diede poi il «pasturale e la
mitra e i guanti, e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa dié loro, dicendo
che più niente v’avea. » Intanto, gli uomini lo sollecitarono a cercare
l’anello, al che Andreuccio, fingendo di impegnarsi nella ricerca, riferì loro
di non averlo trovato. Tuttavia, non essendo sprovveduti, intuirono che
Andreuccio li stava ingannando, così decisero di togliere il puntello che
reggeva il coperchio, così da lasciare Andreuccio rinchiuso nel sarcofago
insieme all’Arcivescovo. «Egli tentò più volte e col capo e colle spalle se
alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolore
vinto, venendo meno, cadde sopra il morto corpo dell’Arcivescovo; e chi allora
veduti gli avesse, malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o
l’Arcivescovo o egli.» Riavutosi dal profondo scoramento, cominciò a piangere temendo
che nessuno avrebbe più aperto il sarcofago, costringendolo a rimanere lì per
sempre. Finchè non capitò che alcune persone si avvicinarono al sarcofago e
sollevarono il coperchio puntellandolo. Anche in questo caso nessuno si
decideva ad entrare. Trasse tutti d’impaccio un prete che si offrì di entrare
nel sarcofago. Cominciò a scendere, facendo entrare nell’arca prima le gambe,
volgendo il capo verso l’esterno così che Andreuccio «in piè levatosi, prese il
prete per l’una delle gambe e fé sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa
sentendo il prete, mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò
fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non
altramenti a fuggir cominciarono che se da cento milia diavoli fosser
perseguitati.» Così Andreuccio potè finalmente allontanarsi dalla chiesa
e ritornare al suo albergo dove i suoi compagni e lo stesso albergatore erano
stati in pena per lui. Dopo aver raccontato la sua disavventura, l’oste gli
consigliò di far subito ritorno a Perugia, «avendo il suo investito in uno
anello, dove per comperare cavalli era andato.» Citazioni tratte dalla
novella Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli,
in una notte da tre gravi accidenti soprappreso, da tutti scampato, con un
rubino si torna a casa sua – Decameron di Giovanni Boccaccio, Aldo Garzanti
Editore, Milano 1980.
dott.ssa
Giuseppa Varriale detta Giosita
Testamento del Principe a favore
dei suoi “vassalli” canosini
del 28 dicembre 1730.
Libri del Principe Antonio Capece Minutolo di Canosa presenti nella biblioteca nazionale di Roma
1) Analisi sopra un articolo della Minerva Napolitana epistola dell’Autore dei Piffari di Montagna a un suo amico. PARMA 30.11.1820.
2) Un Dottore in Filosofia e un uomo di Stato. Dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice.1952.
3) Epistola, ovvero, Riflessioni critiche sull’opera dell’Avv.Fiscale Sig.D.Nicola VIVENZIO intorno al servizio militare dei Baroni in tempo di guerra di Antonio CAPECE MINUTOLO dei Principi di Canosa 1775.
4) Epistola, ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del Reame di Napoli del Generale Pietro COLLETTA Opera di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa. 1834.
5) Epistola sull’uomo incomprensibile comparso in Parigi in quest’anno. 1803.
6) In confutazione degli errori storici e politici di Luigi ANGELONI esposti contro Sua Maestà l’Arciduchessa Maria Carolina D’Austria defunta Regina di Napoli. Epistola di un amico della verità ad uno storico italiano rispettabilissimo. Seconda edizione con aggiunte e correzioni dell’Autore.1831.
7) In confutazione degli errori storici e politici di Luigi ANGELONI esposti contro Sua Maestà L’Arciduchessa Maria Carolina D’Austria defunta Regina di Napoli. Epistola di un amico della verità ad uno storico italiano rispettabilissimo. 1831.
8 ) In difesa del III Aiutante dei Reali Sanniti D. Domenico Artese inquisito di delitto di falsità da trattare in grado di appellazione nel supremo Consiglio di Guerra. Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa (difensore).
9) Istanze, memorie e lettere riguardanti le sue vicende. 1834.
10)Lettere ad AMARANTE Roma 20.09.1834.
11) I miracoli della paura Ragionamento di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa dedicato ai suoi amici MODENA 1831.
12) I miracoli della paura Ragionamento di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa dedicato ai suoi amici MODENA 1831.
13) I miracoli della paura Ragionamento di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa . MODENA 1831.
14) CAPECE MINUTOLO Antonio, I miracoli della paura 1972. facsimile dell’edizione di Modena del 1831.FORNI.
15) La Passione e morte del D.N.Redentore, predetta dai profeti; confermata dai prodigi e dalle testimonianze degli eterodossi scrittori. Opera di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa 1802.
18) I PICCOLI PIFFARI Ossia Risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia dà l’antico autore de’Piffari di Montagna [Antonio CAPECE MINUTOLO di Canosa] in difesa del suo calunniato cliente principe di Canosa.
[Seguono: Un Dottore in Filosofia e un Uomo di Stato. Dialogo del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice]. Parigi, Agosto 1832.
19) (Duplicato del n.18) Bologna, Forni, 1972.
20) Sull’utilità della religione cristiana, cattolica, romana per la tranquillità e pace dei popoli, e per la sicurezza dei troni. Discorso accademico parenetico paradigmatico arricchito di copiose annotazioni e da indin. etc. Opera di Antonio CAPECE MINUTOLO. NAPOLI, Giovanni Battista seguin, 1825.
21) Sulla corruzione del secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee. Lettera ad un Amico (di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa). Italia, 1883.
22) Sulla proporzione delle penesecondo la diversità dei tempi. Epistola di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa all’egregio Professore Mario Antonio PARENTI. MODENA, Tip. Camerale,1831.
23) Sulla proporzione delle pene. BOLOGNA Forni,1972.
24) La trinità, orazione dogmatico-filologica di Antonio CAPECE MINUTOLO dei Principi di Canosa,patrizio napoletano fra i Sinceri dell’Arcadia Reale Isocrate Larissio…… NAPOLI, Onofrio Zambraja 1795.
25) L’utilità della Monarchia nello Stato Civile. Orazione contro i novatori del Secolo di Antonio CAPECE MINUTOLO. NAPOLI,Rambraja,1796.
26)Vedi : “ OTTO giorni dedicati ai liberali illusi. s.l.1883.
27)Vedi: Piano dei liberali tradotto dal francese….. GENOVA 1823.
28)Vedi: “Piffari di Montagna, ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla ingiuria del Principe di Canosa……
29)Vedi: Ritratto [di Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa, scritto da lui stesso].
30)Vedi: Vita politica del cavaliere D.Luigi De’Medici……. [E opera di un omonimo giuriconsulto napoletano legittimista, pubblicata a cura del Principe di Canosa, del quale sono le note di cui è corredata…..].
31)Vedi: VIVENZIO Nicola “ Dal servizio militare di baroni nel tempo di guerra/ Nicola VIVENZIO. Riflessioni critiche sull’opera del VIVENZIO / Antonio CAPECE MINUTOLO Principe di Canosa. – Rist.omast.-Sala Bolognese: A. Forni, 1987 – Ripresa dell’edizione: NAPOLI nella stamperia Simoniana,1796 – CAPECE MINUTOLO ENRICO – O P E R E –
32)Propositiones philosophicae quae…publice propugnandas exponit Henricus CAPICIUS MINUTULUS..ROMA, 1762.
33) CAPECE MINUTOLO Fabrizio – “Saggio di poesie giovanili di Fabrizio CAPECE MINUTOLO dei Principi di Canosa. 1816.
Epistola al Maresciallo
Don Raimondo Capece Minutolo
Nell’Epistola al Maresciallo D. Raimondo Capece Minutolo de’ Principi di Canosa sull’uomo incombustibile (anno di pubblicazione 1803), il principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, intende affrontare in maniera dettagliata il fenomeno dell’Uomo incombustibile – apparso nella Parigi del 1803. Scrive al maresciallo usando un tono confidenziale «caro fratello» e dichiara da subito di condividere le considerazioni da lui espresse sull’argomento, di contro alle critiche e alle ridicolaggini pronunciate da più parti su quest’uomo considerato un « energumeno, un sortilego se non un Anticristo».
«Senza reputarmi né un grande Naturalista, né uno Spirito forte» dice il principe di Canosa, «mi allontano non ostante col mio qualunque siasi sentimento da quello degli altri», non riconoscendo nel fenomeno alcun prodigio. Pertanto, intende dimostrarlo in tre punti: I. «che non riconosco nell’avvenimento cosa alcuna, che si opponga alle leggi della Natura. II. Non essere costui il primo Uomo portentoso, che siasi fatto ammirare in simil genere nella scena dell’Universo. III. Che non mancano taluni tra gli Antichi periti delle recondite virtù delle cose naturali, i quali non ci abbiano lasciato a perpetua memoria registrato i mezzi, onde con l’arte chimica preparare le materie combustibili di ogni genere, onde rendere verso di esse assolutamente inetta l’azione potente del Fuoco.»
Nella dimostrazione del primo punto il principe di Canosa scrive, riferendosi tra l’altro alle esperienze eseguite da Braun sul calore ed ai differenti effetti del fuoco nei minerali, vegetali ed animali: «Siccome quindi senza recarsi stupore, osserviamo tutto dì, che il semplice lume di una candela è capace di fondere il piombo, e non l’argento, così senza contradizione può ugualmente avvenire, che in un Uomo abbia la Natura con recondito artifizio in guisa tale le sue parti preparate e disposte, che non permettano in conto alcuno alle parti attive del fuoco animato fino ad una data temperatura d’intromettersi nei suoi pori, e produrvi adustione, riscaldamento, e molestia.»
Di conseguenza, il principe Antonio sostiene che non debba considerarsi assurdo o contrario alle leggi della Natura, che la Natura stessa abbia disposto le singole parti nell’Uomo incombustibile in modo tale da contrastare la forza del fuoco così da non «molestarle, penetrarle, incenerirle.»
A sostegno di questa tesi ci sono le teorie espresse da «i filosofi più saggi ed autorevoli come Aristotele, Plinio, Eliano, Phile, Georgio Piside, Seneca, Solino, Nicandro» – cita il principe – che «ci attestano esistere un numero prodigioso d’insetti, i quali nascono nelle ardenti fornaci, vivono nelle fiamme ed altri, che sebbene trovino in esse la tomba, pur nondimeno le anelano.»
Pertanto, «quale stupore potrà mai recare» – si domanda il principe – «che un Uomo sia per natura o per arte in foggia tale disposto nelle sue parti organiche, che l’azione del fuoco animato fino ad un certo grado sia verso di esse imponente, non altrimenti che inattivi sono i cocenti raggi del Sole nei fanciulli Etiopi, inattiva la forza dell’acqua forte sull’oro, inefficace il principio corrosivo dell’Arsenico nel Lupo, quello di tanti altri veleni nelle Anitre Pontiche, ed in Mitridate.»
«Dall’esposizione di tutto ciò»- scrive il principe nel concludere il primo punto – «sembrami quindi più che sufficientemente dimostrato, non essere ripugnante in natura, e da cagionare conseguentemente alta meraviglia il vedere in un Uomo disposte in guisa tale le sue parti che più degli altri sia capace di resistere all’azione del fuoco.»
Passa poi a dimostrare il secondo punto, a sostegno del quale il principe afferma che il fenomeno in questione non avrebbe suscitato così tanto stupore se si fosse ricorsi alle molteplici prove descritte nella letteratura degli antichi autori che era stata «pressochè bandita in questi tempi luttuosissimi» […] e se «gli Uomini, che vivono in questo Secolo» – prosegue riferendosi alla corrente filosofica Illuministica – «facendo uso della vera critica, e raziocinio solido, usassero un pò più di riguardo a ciò che narrato ci hanno gli antichi più saggi Scrittori.»
In particolare, il principe attribuisce alla volontà di alcuni di dar luogo ad una vera rivoluzione sconvolgendo ogni retto sistema di pensare, «adottato per principio, che negli errori i più madornali nella sana Filosofia, consistette la sublimità del pensare, introdotta con la pubblica ignoranza la superbia, si credè ciascun moderno semidotto, dopo la lettura di qualche libercolo licenzioso, immorale, ed irreligioso […] ed informe Dizionario – chiaro riferimento al Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri di Diderot e D’Alembert (1751-1772) – «di avere in se ogni sapienza, e di potere quindi non solo sedere a scranna con i Platoni, Aristoteli, ed Archimedi, ma bensì […] disprezzarli, in tutto ciò specialmente che non […] confacevasi ai paradossi loro sistemi.»
Proprio nel non essersi applicati alla meditazione delle opere famose degli antichi filosofi è da individuare la causa, secondo il principe Antonio, «della frequente meraviglia in tanti fenomeni che osserviamo.»
Cita alcuni esempi di Antichi a riprova della veridicità del fenomeno in questione: il celebre Zoroastro Persiano, un uomo saggio che riusciva a maneggiare il fuoco senza riceverne alcun danno; gli Ebrei, i Greci, i Romani ed i Barbari quando alcune circostanze erano dubbie, esponevano talvolta l’Uomo inquisito a «cimenti difficilissimi e straordinari per obbligare quasi la stessa Divinità a divenire garante della verità in controversia», come maneggiare le braci ardenti, passeggiare sopra i metalli roventi e tuffarsi nel burro e in altre sostanze bollenti.
Infine, si prende in esame l’ultimo punto di discussione, riportando una serie di citazioni. La prima è quella di Daniele Giorgio Morhofio che scrive: «Io credo bene […] che sebbene la moderna arte della Chimica abbia fatto grandi voli tanto nelle teorie, quanto nei più interessanti esperimenti, pur tutta volta non può negarsi, che gli Antichi senza i nostri lumi, avevano una perizia maggiore nel preparare certi fuochi artificiali.»
Poi, partendo da Cornelio Agrippa che – scrive il principe di Canosa – «dà nell’Occulta sua Filosofia per una cosa accertata, […] la esistenza di varj farmaci adattati a rimuovere, e rendere vana l’azione del Fuoco, i quali […] trascura in fine di riferire», viene confermato dall’autore dell’Opera De Mirabilibus Mundi attribuita ad Alberto Magno, ed inoltre dal «Dottore di Basilea Gian Giacomo Weckero nella sua Opera de Secretis, dal nostro Napoletano Celebre Gio: Battista la Porta nella Magia Naturale, e da Gio: Alberto Haller nella sua Fisiologia» – commenta l’autore e aggiunge «io mi darò la pena di riferire talune di queste ricette, che sembrate mi sono le più speciose, e più facili […] ad eseguirsi.»
Il principe, inoltre, sottolinea che questi autori non indicano altri metodi che servano a preservare dall’azione del fuoco tutte le materie combustibili «onde gettate nel fuoco non si consumino.» […] «Nè manca presso i citati Autori» – prosegue l’autore – «ancora l’essere esposta la maniera come preparare l’intiero corpo umano in modo da potere senza lesione esporsi tutto nelle fiamme ardenti.»
Segue la citazione di un brano del medico e filosofo Giovanni Battista della Porta tratto dal capitolo Ad extinguendam ignem quae prosint, «ove raccoglie giudiziosamente ciò che si è creduto dagli Antichi sopra tale assunto.»
Al termine dell’Epistola, il principe scrive:«Suppongo intanto di avere bastantemente adempito al mio impegno circa l’esposizione dei farmaci, che si sono dagli Antichi creduti valevoli per resistere all’azione del fuoco.» […] «Rimane dunque a conchiudere» – si legge nella parte finale dell’Epistola – «che siccome limitatissime sono le umane cognizioni, e di esse ben scarso numero ne posseggono gli uomini, così non havvi cosa tanto mal’intesa, quanto quella di negare arrogantemente, o pure di rimanere sorpresi di fenomeni, che talvolta dipendono dalle più piccole cagioni, per cui la nostra negativa, e sorpresa non ha altro fondamento che la nostra ignoranza.»
dott.ssa Giuseppa Varriale detta Giosita
Le origini dei Capece Minutolo
La linea genealogica dei Capece Minutolo sembra generata da un personaggio di tale casato, così chiamato perché piccolo di statura. Si ha memoria di un cardinale Giovanni, detto Minutulus nel 1061 e durante il regno di Manfredi si trovano molti cavalieri del re con tale cognome. I Minutolo hanno goduto nobiltà nel Seggio di Capuana a Napoli e a Messina e Capua. Lo svolgimento genealogico dei Minutolo può sintetizzarsi in tre linee: quella di Canosa, quella di San Valentino e quella di Bugnano.
La prima è quella dei principi di Canosa, titolo avuto nel 1712 per i soli discendenti maschi primogeniti. La seconda riguarda i duchi di San Valentino di Casapozzana dal 1660 e la terza linea fu decorata nel 1852 del titolo di marchese di Bugnano, ereditabile dai soli maschi primogeniti, di patrizio napoletano per tutti i maschi e uso del predicato “dei duchi di San Valentino”. Spesso negli atti d’archivio vengono chiamati Capece Minutolo del Sasso, predicato quest’ultimo del ducato concesso ad Achille, maestro di campo, che il 6 settembre del 1634 combattè nella battaglia di Nördlingen – in Baviera – sotto il comando del generale Galasso. Le più antiche notizie risalgono a Marino Capece, originario di Sorrento, conestabile al tempo dell’imperatore d’Oriente Alessio I Comneno (1081-1118).
A Napoli sono presenti molte testimonianze monumentali dei Minutolo. Ai margini del Teatro Romano, lungo la via dell’Anticaglia al numero 24 e ad angolo col vico Cinquesanti, è situato un antico Palazzo Minutolo che presenta un impianto costruttivo di epoca remota e non precisamente databile per una serie di stratificazioni murarie le cui tracce più antiche risalgono all’epoca romana. Il portale è di piperino e conserva i battenti lignei dell’antico portone; sull’arco vi è un’antica targa quadrata di marmo, di gusto medievale, sulla quale sono scolpite a bassorilievo le armi gentilizie dei Capece Minutolo racchiuse in uno scudo inclinato e cimato da un elmo a becco con svolazzi. In questo palazzo appartenuto anche al principe Giovanni Capece Zurlo, vi sono le cantine che conservano le antiche volte in opus reticulatum.
Un altro Palazzo Capece Minutolo è nella via dei Tribunali al numero 138, e rappresenta l’angolo occidentale della piazza Sisto Riario Sforza e conserva caratteri pre-rinascimentali. La parte più antica è costituita dal portale di marmo e piperino, su cui sono scolpiti tre stemmi. Simile a questi, anche per la fattura, è lo stemma Capece Minutolo che si trova nei rinfianchi del portale di vico Sedil Capuano numero 45, dove aveva sede l’antico palazzo vescovile di cui restano il portale marmoreo e alcune nervature di piperino nell’androne. Il portone di legno che si vede è una sostituzione operata nel Settecento. La facciata ha una parete liscia, priva di decorazioni, ma alla destra del grande portale si scorge un piccolo portale catalano. Sul confine occidentale della facciata si vede lo stemma vescovile dei Minutolo, scolpito a targa, che per la sua fattura e iconografia araldica costituisce uno dei pochi esemplari di tipo medievale rinvenuti a Napoli lungo le strade. (vedi anche su Wikipedia e su www.napoligrafia.it)
Questo edificio è ubicato a ridosso dell’abside della cattedrale e il suo ingresso era quello dell’antico Episcopium voluto dal vescovo Minutolo sul cui nome di battesimo gli storici hanno assunto posizioni discordi, ma considerando il portale esistente di tipo durazzesco e le altre forme più prossime all’architettura catalana, sembra doversi attribuire la committenza dell’antico palazzo e degli intagli marmorei al cardinale Errico Minutolo, arcivescovo di Napoli dal 1389 al 1399. In realtà, l’arcivescovo si chiamava Errico Capece Minutolo ed era stato precedentemente vescovo di Bitonto e Trani nel 1383. Fu eletto cardinale del titolo di Sant’Anastasia sotto il pontificato del papa Bonifacio IX Tomacelli (1389-1404) nel concistoro del 18 dicembre 1389. Morì a Bologna il 17 giugno del 1412 e la sua salma fu traslata a Napoli dove fu sepolto nella Cappella Minutolo al Duomo. Il suo nome è legato ai lavori che seguirono al terremoto del 10 settembre 1349, quando andarono in rovina la facciata e il campanile della cattedrale con parte dell’episcopio. Egli provvide al consolidamento statico e, quale grande mecenate dell’età sua, affidò nel 1407 allo scultore Antonio Baboccio, proveniente dal Lazio, la realizzazione del portale centrale del Duomo.
Un monumento dell’VIII secolo è la Cappella Capece Minutolo che si trova nel Duomo di Napoli, essa è vicino a quella dei Milano ed è intitolata a san Pietro apostolo e a sant’Anastasia martire. Fu eretta nel 764 da Stefano II, duca di Napoli. Uesto luogo oltre a costituire ricordo familiare dei Minutolo è interessante perché mostra sulle pareti e sulla volta alcuni affreschi con i ritratti di alcuni personaggi che, per dignità ecclesiastiche e per gradi militari, diedero lustro alla famiglia dal 1240 al 1482. Raffigurati tutti in fila inginocchiati, con la corazza e i cimieri, costituiscono uno spaccato dell’età medievale; come recitano i versi:
Mira del tempio alle pareti intorno
dei Minutoli eroi dipinti i volti,
Famosi in giostra ch’han su l’elmo il corno…
Insieme ai sepolcri dei cardinali Errico e Orso Minutolo è presente nella cappella quello più famoso dell’arcivescovo Filippo Minutolo, morto nel 1301, che diede motivo al Boccaccio di scrivere nel Decamerone la novella di Andreuccio da Perugia (vedi novella). Si narra che dopo la sua morte i ladri avessero aperto il sepolcro, asportando dal cadavere i più ricchi ornamenti, tra cui un anello nel quale era incastonato un prezioso crisolito, valutato la considerevole cifra di cinquecento fiorini.
L’episcopio voluto da Errico Minutolo fu poi ridotto a seminario dal cardinale Alfonso Carafa nel 1565 e inaugurato dal suo successore Mario Carafa il primo gennaio 1568. Questi acquistò l’edificio – venduto dai Minutolo perché in disuso – riscattandolo al prezzo di seimila ducati lo adattò a seminario. In seguito fu ampliato, per la mancanza di spazi, dal cardinale Decio Carafa nel 1613. Nel 1647 l’arcivescovo Ascanio Filomarino, rifatto completamente il nuovo Palazzo Arcivescovile, destinò a uso di seminario quello antico, che fu poi dotato nel 1700 di cospicue rendite dal papa Innocenzo XII (1691-1700). L’ultimo maggiore ampliamento, che ha cancellato notevolmente le tracce della precedente architettura, è avvenuto nel 1770 per volontà del cardinale Antonio Sersale.
Il palazzo che prospetta sul largo Donnaregina, l’antica “Somma Piazza”, a confine con l’arcivescovado, reca sul portale lo stemma di marmo con l’arme dei Minutolo. L’epoca presunta di costruzione si colloca tra la fine del secolo XIV e gli inizi del secolo XV. E’ probabile che l’ingresso di questo palazzo costituisse un tempo il secondo accesso all’edificio dell’antico Episcopio sito al vico de’ Manocchi, oggi Sedil Capuano, come si evince dalla lettura dei confini sulle carte catastali e dagli stemmi presenti sui portali recanti entrambi le insegne araldiche dei Minutolo.
Per la genealogia più recente la fonte più autorevole è il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, prodotto e stampato dal Collegio Araldico di Roma di cui si allega copia da inserire nel sito.
Dati tratti da “Le grandi famiglie di Napoli” di Nicola della Monica (Newton & Compton Editori, Roma ottobre 1998)
Le Carte Canosa nell'Archivio Borbone
Nell’Archivio Borbone, di cui è stato edito l’inventario sommario nella serie delle Pubblicazioni degli Archivi di Stato (Roma 1961), insieme a molti archivi di ministri, che costituiscono dei fondi strettamente connessi con l’archivio reale, è stato reinserito anche il fondo delle carte Canosa, uno dei più consistenti e più interessanti, non solo per le vicissitudini che il fondo, ora conservato a Napoli, ha subito prima di trovare un’idonea collocazione, ma anche perché delinea le caratteristiche della personalità del Canosa e la sua non comune “grafomania“.
La parte dell’archivio del principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, inserita nell’Archivio Borbone, fu ritrovata nella sua casa di Pesaro, ultima dimora del principe.
Ė proprio del ricco patrimonio di scritti lasciato dal Canosa che si occupa Renata Orefice nel suo Le Carte Canosa nell’Archivio Borbone (Estratto dall’«Archivio Storico per le Province Napoletane» Terza serie, vol. I 1961). L’autrice traccia in una breve introduzione il profilo del principe di Canosa, nato a Napoli nel 1768, e lo definisce come «uno dei più tenaci sostenitori dell’ancien regime, legato ai privilegi baronali ed ecclesiastici di cui fu un accanito fautore.»
Dopo aver cercato di impedire la proclamazione della Repubblica partenopea il principe, costretto a nascondersi, fu catturato, imprigionato in Castel S. Elmo, condannato a morte e salvato dal cardinale Ruffo. Tuttavia, per la sua condotta intransigente fu nuovamente rinchiuso in carcere e subì un processo intentatogli dai Borboni. Condannato a cinque anni di reclusione, fu rimesso in libertà nel 1801. Instaurato il governo francese a Napoli nel 1806, il Canosa seguì i Borboni in Sicilia, iniziando un’intensa attività, rivolta anche a reclutare armati per la riconquista del regno.
In seguito, al ritorno nel Regno, il Canosa fu nominato ministro di Polizia, ma la sua azione rigorosa ed intransigente gli procurò opposizioni tali da farlo subito destituire dalla carica nel 1816. Costretto a vivere lontano dalla cosa pubblica fino al 1821, si dedicò a riversare negli scritti i suoi pensieri e le sue ribellioni. Gli fu assegnato nuovamente l’incarico nel 1821, ma l’opposizione delle Potenze della Santa Alleanza indussero Ferdinando I a rimuoverlo di nuovo dalla carica e a consigliargli l’allontanamento dal Regno.
«La vita in esilio contribuì a far assumere al Canosa» – scrive l’autrice – «quell’atteggiamento di lotta ad oltranza contro i liberali e contro i governi che ne seguivano le idee, che egli mantenne fino alla fine, divulgandolo in memorie, libelli, articoli ed opuscoli che testimoniano la sua indole intemperante ed esuberante, il suo temperamento avventuroso, le sue idee ed i suoi sentimenti». Scacciato dalla Toscana nel 1830 perché ritenuto “indesiderabile“, dal 1831 al 1834 collaborò attivamente al giornale La Voce della Verità. Dopo aver lasciato Modena nel 1834, dove era riuscito ad entrare nelle grazie del duca Francesco IV che lo aveva nominato suo consigliere, si ritirò a Pesaro dove morì il 4 marzo 1838.
«Per quanto eterogenee per il contenuto» – scrive nell’introduzione alla raccolta Renata Orefice – «le carte Canosa meritano di essere illustrate particolarmente perché offrono un quadro fedele del carattere dell’uomo divenuto preda dell’ossessionante mania di scrivere per difendersi e giustificarsi e di servirsi di tutti i mezzi, attraverso una fitta rete di corrispondenti e di spie, per inserirsi negli affari interni del regno e per tener sempre sveglia, nei suoi riguardi, l’attenzione degli uomini politici, suoi contemporanei.»
Nell’ordinamento generale dell’Archivio Borbone, le carte del principe di Canosa costituiscono ventinove unità archivistiche (nn. 722-750) che nel lavoro della Orefice sono divise in: Scritture sull’attività privata e politica del Canosa a. 1804-1836 (n. 722-728); Memorie diverse di natura politica, economica, finanziaria, con libelli e opuscoli dal 1797 al 1836 (n. 729-732); Componimenti poetici e satirici, stampe, appunti di ogni genere a. 1801-1837 (n. 733).
Infine, viene indicata la fitta corrispondenza – corredata di allegati dei più svariati argomenti, a. 1802-1838 (n. 734-748) – che il Canosa ebbe con diversi personaggi dell’epoca borbonica, i quali sono stati raggruppati e distinti cronologicamente – conclude l’autrice – «al fine di rendere più agevole il lavoro dello studioso nell’interpretazione del dialogo che il Canosa intrecciò dalla forzata lontananza, con tutte le forze vive della reazione napoletana».
Dott.ssa Giuseppa Varriale detta Giosita